LA TERAPIA
– L’autosservazione
– Ricerca in breve: a che punto siamo… i farmaci futuri…
– Il paziente Parkinsoniano e gli interventi chirurgici
– L’anestesia: le attenzioni da seguire in caso di Parkinson
– Considerazioni clinico-terapeutiche sulla malattia di Parkinson
– I sintomi non motori che potrebbero precedere la malattia di Parkinson
– I dopaminoagonisti
– I vantaggi dei dopaminoagonisti
– Passi avanti nella terapia antiparkinson
– I farmaci antiparkinson
– Il dosaggio dei farmaci antiparkinson
– L’ospedalizzazione
– Il tesserino terapeutico
– La scheda per il controllo motorio
– La grande scoperta della Levodopa
– E’ neurotossica la Levodopa?
– Levomet
– La terapia con il Sinemet
– Sirio (MELEVODOPA+CARBIDOPA)
– Duodopa (formulazione di levodopa in gel)
– Stalevo (levodopa+carbidopa+entacapone)
– Xadago (safinamide)
Con la tecnica dell’autosservazione si pone attenzione verso se stessi oppure verso qualcosa che ci riguarda. L’obiettivo dell’autosservazione è di imparare a riconoscere quali sono le sensazioni, gli stati d’animo, i pensieri e i comportamenti che si hanno in determinate situazioni. Annotare in un diario le proprie osservazioni offre la possibilità di ricordare più facilmente tutto ciò che si è provato durante il giorno a livello emotivo, mentale e fisico. In caso di ansia, si può ad esempio scrivere: “Questa situazione mi ha causato ansia”. Stessa cosa per la rabbia, la gelosia, la tristezza, l’apatia. Per ciò che riguarda l’aspetto psichico si possono annotare i pensieri che hanno dato più fastidio, quelli ripetitivi, quelli ossessivi, in modo da portarli alla luce della consapevolezza e, quindi, essere nella giusta direzione per il cambiamento. A livello fisico si possono osservare i movimenti corporei e descriverli nel proprio diario. Per il malato di Parkinson può essere estremamente utile indicare i momenti della giornata durante i quali ha difficoltà motorie, movimenti indesiderati (discinesie), altri sintomi non motori disautonomici (o del sistema neurovegetativo)…
PER IL MALATO OSSERVARE I SINTOMI DELLA MALATTIA DI PARKINSON
Se in generale l’autosservazione può essere utile per tutte le persone, è particolarmente d’aiuto per le persone con malattia di Parkinson. Questa patologia, infatti, può causare una grande varietà di sintomi, molti dei quali vanno e vengono in momenti diversi della giornata o nell’arco della settimana. La malattia di Parkinson porta dei cambiamenti nella vita della persona e l’imprevedibilità dei sintomi complica la gestione della stessa malattia. L’autosservazione può aiutare la persona a comprendere meglio la propria patologia rendendola maggiormente gestibile. Con l’autosservazione, il malato può rendersi conto in quali situazioni i sintomi peggiorano e, viceversa, quando migliorano. Di conseguenza, può cercare di favorire le circostanze in cui il benessere aumenta e riconoscere per tempo le situazioni in cui i sintomi possono peggiorare in modo da poterli contrastare più efficacemente. L’autosservazione può, quindi, aiutare a rendere maggiormente prevedibile l’andamento della malattia di Parkinson. Prendere nota dei sintomi e di come i farmaci antiparkinson agiscono può essere di notevole aiuto per il medico. Le indicazioni fornite dal malato costituiscono infatti la fonte primaria di informazione per il neurologo e diventano, quindi, fondamentali per l’impostazione di un efficace e valido trattamento farmacologico personalizzato. Nel corso della cura, inoltre, è indispensabile effettuare verifiche periodiche sull’idoneità del regime farmacologico adottato e non di rado risulta necessario modificarlo. Per tutte queste ragioni, il dialogo tra il neurologo, il paziente e chi se ne prende cura deve essere continuativo. Il malato deve pertanto imparare a porre attenzione a se stesso e a riconoscere i vari stati emotivi e fisici presenti nelle diverse situazioni e informare il proprio neurologo. L’alleanza terapeutica tra neurologo, paziente e familiare garantisce una migliore qualità di vita al malato nel tempo. A questo proposito, è stata realizzata una scheda di facile ed agevole compilazione nella quale il malato può annotare sia le difficoltà motorie, sia i movimenti indesiderati che si manifestano, ora per ora, nell’arco della giornata, da presentare allo specialista per aiutarlo ad individuare meglio i periodi della giornata che necessitano di un maggior controllo terapeutico (Fig. 1)
(Fig. 1)
SCHEDA PER IL CONTROLLO MOTORIO
Si raccomanda di compilare in ogni sua parte lo schema proposto, riportando nella scheda le varie osservazioni raccolte durante l’intera settimana che precede la visita di controllo.
IL TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa causata dalla progressiva morte delle cellule nervose (neuroni) situate nella cosiddetta sostanza nera, una piccola zona del cervello che, attraverso il neurotrasmettitore dopamina, controlla i movimenti corporei. Il trattamento farmacologico attuale della malattia di Parkinson si basa principalmente sulla correzione del deficit di dopamina. I principali farmaci per il trattamento della malattia sono:
– Levodopa, il farmaco più efficace per la cura della malattia di Parkinson. La levodopa è un precursore della dopamina e sopperisce alla sua carenza. Purtroppo, a distanza di alcuni anni dalla sua regolare assunzione compaiono numerosi effetti collaterali, in particolare fluttuazioni motorie (durante la giornata il malato presenta delle variazioni consistenti nella sua capacità di movimento) e discinesie (movimenti involontari). In questa fase della malattia di Parkinson, si deve continuare ad assumere levodopa in associazione ad altri farmaci, come i dopaminoagonisti, gli inibitori enzimatici. Si consiglia solitamente di assumere la levodopa lontano dai pasti e, in caso di flutuazioni motorie, si suggerisce un pasto aproteico a mezzogiorno e di assumere a cena le proteine poiché queste possono interferire con l’assorbimento della levodopa.
– Dopaminoagonisti: a differenza della levodopa, vanno a stimolare direttamente i recettori dopaminergici a livello cerebrale sui recettori post-sinaptici. I dopaminoagonisti possono essere utilizzati da soli all’inizio della malattia o in associazione alla levodopa e ad altri farmaci nelle fasi più avanzate. I principali dopaminoagonisti disponibili sono bromocriptina, lisuride, pergolide, cabergolina, ropinirolo, prami-pexolo, rotigotina, apomorfina.
– Inibitori enzimatici: ne esistono di diversi tipi. Gli inibitori dell’enzima dopadecarbossilasi (carbidopa e benserazide) sono molecole già contenute nelle formulazioni commerciali di levodopa per ridurre gli effetti periferici. Gli inibitori delle catecol-O-metiltransferasi (entacapone e tolcapone) vengono usati in associazione alla levodopa per aumentarne la permanenza nel sangue, e quindi l’efficacia nel tempo, quando appaiono le prime fluttuazioni motorie. Gli inibitori delle monoamino-ossidasi di tipo B (selegilina, rasagilina) bloccano l’enzima che metabolizza la dopamina nel cervello. La selegilina e la rasagilina sono farmaci che non vanno mai usati insieme.
– Anticolinergici: efficaci in particolare contro i tremori, non vengono somministrati in caso di ipertrofia prostatica e di glaucoma (pressione alta dell’occhio) e al di sopra di 70 anni perché facilitano i disturbi della memoria.
– Amantadina: un tempo utilizzata nella terapia della fase iniziale della malattia di Parkinson, è attualmente impiegata con lo scopo di ridurre alcuni degli effetti collaterali (movimenti involontari o discinesie). Gli effetti collaterali dell’amantadina possono essere il gonfiore alle gambe e la comparsa di reticoli venosi sottocutanei. Poiché i farmaci antiparkinson non agiscono solo a livello dei nuclei nervosi sofferenti ma anche su altri sistemi, possono causare effetti collaterali psichici, cardio-circolatori, gastrointestinali. È perciò importante individuare nel singolo paziente e per ogni stadio della malattia quale farmaco o quale combinazione di farmaci abbia il massimo effetto con un minimo di effetti collaterali.
Benefici ed effetti collaterali
Il neurologo deve cercare di trovare il giusto equilibrio: alleviare i sintomi della malattia e nel contempo evitare le complicazioni legate ai trattamenti farmacologici. Questo equilibrio deriva dalla valutazione del neurologo su ciò che è meglio per il paziente, in base alle sue caratteristiche individuali che comprendono non solo gli aspetti della disabilità, ma anche l’età, l’attività lavorativa ed il contesto sociale in cui vive, oltre allo stadio di progressione della patologia.
Ogni paziente è diverso
Nella malattia di Parkinson, i sintomi si manifestano in modo differente da persona a persona e, per di più, i sintomi e la risposta ai farmaci variano nella medesima persona da un giorno all’altro. Non per tutti i pazienti sono indicati gli stessi farmaci e neppure gli stessi dosaggi. Nel decorso della malattia si rende anche necessario cambiare la tipologia di
farmaco e i dosaggi. Un’associazione di diversi farmaci è spesso l’unico modo per garantire il migliore controllo dei sintomi.
EFFETTO DI FINE DOSE, INDIVIDUARLO E GESTIRLO
Sebbene la levodopa sia il principio attivo più efficace per contrastare i sintomi parkinsoniani e porti benefici durante l’intero decorso della malattia, a lungo termine non è più in grado di fornire un controllo motorio stabile. La situazione si complica ulteriormente di fronte ad una lunga durata di malattia ed all’età avanzata del malato. I pazienti iniziano ad avvertire la fine dell’effetto della singola somministrazione di levodopa (“wearing off” o deterioramento da fine dose), la comparsa di movimenti involontari/discinesie, le fluttuazioni motorie “on-off”, gli effetti secondari anche di tipo psichico. Con l’effetto “fine dose” si riduce il periodo in cui il paziente risponde bene alla levodopa, mentre si allunga quello in cui questa risposta è scarsa.
Quando si verifica?
Il peggioramento dei sintomi si verifica normalmente nei momenti che precedono l’assunzione della levodopa. Solitamente, i sintomi si ripresentano a due o più ore di distanza e la situazione torna a migliorare dopo avere assunto la dose successiva di levodopa.
Dialogo con il medico
Dal momento in cui inizia a manifestarsi l’effetto di fine dose della levodopa, può essere più impegnativo gestire la malattia e diventa ancora più decisiva la collaborazione tra il medico e il paziente.
Diagnosi precoce
Quando si individuano con tempestività i sintomi dell’effetto di fine dose, si hanno maggiori possibilità di individuare la terapia farmacologica più efficace e adatta al paziente.
LINEE GUIDA: COME AUTOSSERVARSI
Affinché l’autosservazione sia utile, si suggerisce di seguire questi quattro punti:
1. Scegliere una esperienza ben precisa. Innanzitutto, in base al proprio obiettivo, è bene scegliere una specifica esperienza, un dato comportamento oppure il problema che si vuole osservare. Spesso le persone pensano di dover tenere in considerazione solamente i problemi e/o le esperienze negative, poiché ritengono che la funzione dell’autosservazione sia solo quella di trovare una soluzione. Tuttavia, prendere nota delle esperienze positive può essere a volte di utilità anche maggiore.
2. Essere consapevoli. E’ necessario essere consapevoli delle proprie sensazioni nelle diverse situazioni. E’ importante riconoscere in se stessi i propri stati d’animo: ad esempio quando si è contenti oppure stressati.
3. Annotare la propria esperienza in un diario, nel computer oppure utilizzare un registratore, lo smartphone indicando il momento in cui accade.
4. Esercitarsi. L’autosservazione è un’abilità che si acquisisce con la pratica: quanto più viene effettuata, tanto più facile diventa autosservarsi e maggiori sono i benefici.
Il programma EduPark – Edizioni Erickson – Novartis Farma SpA
Origgio (Varese)- Annotazioni
OSSERVARE LE PROPRIE SENSAZIONI IN UN DIARIO
PER IL MALATO: Attraverso l’osservazione è possibile monitorare nel lungo periodo stati emotivi e fisici ricorrenti annotandoli ogni giorno, in maniera costante, in un diario. La persona ne diventa consapevole e, quando compaiono, è in grado di gestirli al meglio. Il malato di Parkinson può, ad esempio, valutare nelle varie ore della giornata le proprie limitazioni motorie e gli aspetti emozionali (l’efficacia dei farmaci, i problemi di equilibrio, il freezing, la depressione…), ma anche le situazioni positive (svolgere attività piacevoli, sentirsi bene, …)
ESEMPIO DI DIARIO TENUTO DAL MALATO
PER IL FAMILIARE: L’autosservazione è d’aiuto anche per coloro che si prendono cura della persona con malattia di Parkinson. L’imprevedibilità e la variabilità della sintomatologia parkinsoniana possono rendere difficile sia gestire la patologia, sia aiutare il malato. Per comprendere meglio come l’autosservazione può essere d’aiuto, ecco due esempi:
– Osservare le volte in cui il proprio aiuto è maggiormente richiesto. Spesso il familiare pensa che il suo aiuto sia richiesto continuamente. Annotare il tempo impiegato realmente per assistere il malato potrebbe dimostrare che esistono, invece, dei momenti in cui il proprio aiuto non è necessario. In tal modo, il familiare avrebbe la possibilità di dedicarsi ad altre attività.
– Osservare le proprie sensazioni. Con il tempo, prendersi cura di un malato di Parkinson può diventare difficoltoso. Prendere nota delle circostanze che fanno star bene il malato, può aiutare il familiare ad organizzarsi in modo che queste situazioni possano ripetersi (ad esempio: fare una passeggiata al parco, andare allo stadio, cenare al ristorante…).
ESEMPIO DI DIARIO TENUTO DAL FAMILIARE
Immunoterapia anti alfa-sinucleina: vaccini, anticorpi monoclonali
La malattia di Parkinson è causata dalla progressivaperdita delle cellule nervose a livello cerebrale che producono il neurotrasmettitore dopamina il quale controlla il movimento. Attualmente, si stanno sviluppando una serie di terapie aventi come bersaglio la proteina alfa-sinucleina che avrebbe un ruolo patogenetico nella malattia di Parkinson e nelle sinucleinopatie tra le quali l’atrofia multisistemica (MSA) e la Demenza a Corpi di Lewy (DLB). L’alfa-sinucleina è una proteina localizzata prevalentemente a livello dell’estremità sinaptica. Un’alterazione della sua struttura tridimensionale (ripiegamento proteico incorretto), porta all’aggregazione e all’accumulo di questa proteina all’interno dei neuroni dopaminergici formando i tipici corpi di Lewy, aventi un effetto altamente neurotossico. Recenti studi hanno messo in evidenza come l’alfasinucleina extracellulare o aggregata possa trasmettersi da una cellula all’altra e quindi propagare il processo patologico alla base della malattia di Parkinson, similmente ad un’infezione virale, innescando una serie di fenomeni neurodegenerativi che possono essere in parte anche comuni ad altre malattie come la malattia di Alzheimer, la malattia di Huntington e in molti tipi di tumore. Su tale ipotesi si basano le nuove terapie immunitarie anti alfa-sinucleina. Queste nuove immunoterapie, se dovessero dimostrarsi efficaci nell’interferire sull’accumulo della proteina alfa-sinucleina cercando di bloccarne la sua diffusione, potrebbero agire sui meccanismi neurodegenerativi alla base di queste patologie e modificarne la storia naturale.
– Vaccini
L’obiettivo è di istruire il sistema immunitario a generare anticorpi specifici che distruggono le molecole di alfa-sinucleina malripiegata. Il vaccino agisce stimolando il sistema immunitario a produrre anticorpi contro l’alfa-sinucleina per ridurre gli accumuli di questa proteina in determinate aree cerebrali che ad oggi è ritenuta la principale responsabile della morte cellulare nelle sinucleinopatie (immunizzazione attiva).
– Anticorpi monoclonali anti-alfa-sinucleina
Gli anticorpi monoclonali fanno parte delle cosiddette “terapie a bersaglio molecolare” in grado di identificare un preciso bersaglio e di colpirlo lasciando intatti i tessuti adiacenti. Si tratta di anticorpi “intelligenti” prodotti in laboratorio da un organismo monocellulare nel quale è stato inserito il gene per produrre l’anticorpo anti-sinucleina tramite tecniche di ingegneria genetica. Il trattamento consiste in una iniezione mensile di anticorpi che si legano alle proteine e segnalano al sistema immunitario che esse sono indesiderate e devono essere rese innocue (immunizzazione passiva). L’anticorpo somministrato stimola quindi un’immunità passiva all’alfa-sinucleina; il sistema immunitario solleva rapidamente una risposta contro l’alfa-sinucleina, innescata dagli anticorpi esterni, e rimuove la proteina tossica. Questa è una risposta immunitaria transitoria e una volta che l’anticorpo non è più presente nel corpo, la risposta termina.
Il ripiegamento delle proteine o ripiegamento proteico (in inglese pro-teinfolding) è il processo di ripiegamento molecolare attraverso il quale le proteine ottengono la loro struttura tridimensionale. Il ripiegamento corretto è indispensabile per il funzionamento delle proteine. In situazioni normali la rete di controllo del sistema immunitario riconosce le proteine mal ripiegate e le degrada ma talvolta, soprattutto con l’avanzamento dell’età, alcune proteine sfuggono al controllo e si depositano nelle cellule o al loro esterno causando numerose malattie. Il mal ripiegamento di una proteina generalmente è impedito dalla presenza delle “chaperonine” proteine che facilitano e assicurano il corretto ripiegamento delle proteine.
alfa-sinucleina mal ripiegata
Altri farmaci
NPT200-11 una piccola molecola di origine cinese che blocca il mal ripiegamento della proteina alfa-sinucleina impedendo la formazione di aggregati di alfa-sinucleina nelle membrane cellulari e quindi i conseguenti effetti tossici sulla funzione cellulare. NPT200-11 ha dimostrato di migliorare la funzione motoria e altri marcatori di neurodegenerazione in modelli animali della malattia di Parkinson.
Nilotinib (nome commerciale Tasigna) è un farmaco già in commercio per la leucemia mieloide cronica. Secondo i dati di studi preliminari (fase 2), tale farmaco può prevenire la formazione degli aggregati tossici di alfa-sinucleina. I risultati della sperimentazione riportano miglioramenti della capacità cognitiva e delle capacità motorie per il trattamento della malattia di Parkinson associato a demenza e della demenza con corpi di Lewy (DLB).
Curando l’infezione da HeliCobaCter pylori migliorano i sintomi parkinsoniani
I sintomi motori della malattia di Parkinson sono spesso preceduti da sintomi non motori, quale ad esempio la stipsi. Ciò potrebbe supportare la teoria secondo cui il processo patologico inizierebbe già molto prima nell’intestino. A tale proposito, da alcuni anni l’attenzione si è focalizzata soprattutto su un batterio gastrico: l’helicobacter pylori.
Dall’analisi di studi precedenti sono emersi alcuni convincenti argomenti a favore dell’associazione tra l’helicobacter pylori e la malattia di Parkinson. A cominciare dal fatto che le persone con malattia di Parkinson hanno maggiori probabilità di avere un’infezione da helicobacter pylori rispetto al resto della popolazione. Non solo: le persone con la malattia di Parkinson che hanno anche un’infezione da helicobacter pylori, hanno maggiori problemi motori rispetto alle persone con la malattia senza tale infezione.
Inoltre, l’eliminazione del batterio provoca un miglioramento delle funzioni motorie. Infine, i pazienti che si liberano dell’infezione batterica mostrano una maggiore capacità di assorbimento della levodopa, il farmaco più utilizzato nella terapia per la malattia di Parkinson, rispetto ai pazienti con l’infezione in corso. I ricercatori sono convinti che gli specialisti che hanno in cura pazienti con Parkinson debbano verificare la presenza o meno dell’infezione da helicobacter pylori e in caso positivo intervenire con le opportune terapie. Eliminando il batterio si ottiene infatti un conseguente miglioramento dei sintomi parkinsoniani e della qualità di vita. In conclusione, esiste un legame evidente tra l’helicobacter pylori e la malattia di Parkinson tuttavia sono necessari ulteriori studi per stabilire il possibile nesso causale.
Parkinson Svizzera marzo 2019
Negli ultimi anni c’è stato un costante aumento delle procedure chirurgiche in pazienti con malattia di Parkinson e non vi è dubbio che la complessità del trattamento antiparkinsoniano, unitamente alla possibile interazione farmacologica, richieda una attenzione particolare. Gli interventi chirurgici cui più frequentemente sono sottoposti questi pazienti sono di tipo urologico, oftalmologico, ortopedico e di chirurgia addominale. Le difficoltà gestionali in fase peri-operatoria derivano dalla frequente alterazione dello schema di assunzione farmacologica, dalla ridotta mobilità, da interazioni e reazioni avverse farmacologiche, dal possibile incremento delle complicazioni. Elenchiamo di seguito alcuni consigli per chi deve affrontare un intervento chirurgico, raccomandando di affidarsi con fiducia ad un team multiprofessionale, che condividerà con il paziente le scelte cliniche più appropriate per ogni circostanza:
• La scelta dell’anestesia dipende da molti fattori, quali il tipo di procedura chirurgica da effettuare, il consenso del paziente, la preferenza del chirurgo, i fattori di rischio coesistenti;
• dovrebbe essere mantenuto lo stesso trattamento farmacologico che il paziente parkinsoniano assume quotidianamente e dovrebbe essere sospeso soltanto per il tempo necessario alla dieta assoluta prima dell’intervento;
• in premedicazione, una compressa di levodopa+IDP con un cucchiaio d’acqua può essere somministrata una ora prima dell’intervento;
• il trattamento dovrebbe essere ripreso il prima possibile, basandosi sulla capacità di deglutizione, con il medesimo schema assunto in precedenza;
• per gli interventi in aree diverse dall’addome, il trattamento può essere ripreso dopo circa 2-3 ore.
In caso di intervento chirurgico addominale, in cui è necessaria una dieta assoluta successiva alla procedura, si segnala che:
• le dosi farmacologiche dovrebbero essere personalizzate, anche in considerazione dello stadio di malattia;
• generalmente non sono richieste variazioni della posologia in previsione dell’intervento;
• non c’è una conversione universalmente accettata, ma 250 mg di levodopa sono approssimativamente equivalenti a 8 mg di rotigotina, a 8 mg di ropinirolo o a 1,05 mg di pramipexolo;
• in alternativa, l’apomorfina s.c. può essere utilizzata ogni 3-4 ore, se necessario;
• la gestione del paziente è simile sia nella chirurgia in urgenza, sia programmata.
Nei casi di intervento chirurgico non addominale, richiedente una dieta assoluta per poche ore, i farmaci antiparkinsoniani possono essere somministrati mediante un sondino naso-gastrico con una minima quantità di acqua, anche 2 ore dopo l’intervento.
Nella fase post-operatoria, è importante:
• riprendere il prima possibile il trattamento antiparkinsoniano
• assicurare una corretta analgesia per il trattamento del dolore
• favorire la fisioterapia respiratoria per tutti gli interventi toracici e dell’addome superiore per ridurre il rischio di infezioni respiratorie.
“Ricerca in movimento” 2/2017- Limpe-Dismov-Sin
Per essere sottoposto ad un intervento chirurgico il paziente deve necessariamente essere sottoposto ad un’anestesia che serve a bloccare il dolore ed a proteggere l’organismo dall’aggressione chirurgica.
I vantaggi dell’anestesia locale rispetto all’anestesia generale sono:
– permette la comunicazione con il paziente ed un più precoce trattamento dei disturbi riferiti
– evita gli effetti miorilassanti dell’anestesia generale e dei bloccanti neuromuscolari
– con l’anestesia locale si ha un miglior controllo del dolore e la riduzione della risposta allo stress chirurgico.
Di contro, in anestesia generale l’inalazione di anestetici in combinazione con altri farmaci (oppioidi) può peggiorare i sintomi parkinsoniani, l’alta incidenza di nausea e vomito associate possono ritardare la ripresa del trattamento orale antiparkinson e i pazienti con malattia di Parkinson sono più soggetti a infezioni polmonari per la maggiore difficoltà ad eliminare le secrezioni (tosse meno efficace + disfagia).
E’ preferibile l’anestesia generale quando i sintomi parkinsoniani (tremore e rigidità) possono interferire con la riuscita dell’intervento. Il tremore può infatti disturbare alcuni sistemi di monitoraggio che controllano l’andamento dell’intervento e rendere la loro interpretazione più difficile. Altri casi che fanno optare per l’anestesia generale sono: il chirurgo può richiedere che il paziente sia immobile (chirurgia fine) e la procedura chirurgica può non essere possibile in anestesia locale.
Anestetici e altri farmaci perioperatori
L’anestetico di scelta è il Propofol poiché il Tiopentone riduce il rilascio di dopamina striatale e il Ketamine è controindicata potendo causare un’accentuata risposta simpatica, le fenotiazine, i futirrofenoni (inclusi il droperidolo) e la metoclopramide possono peggiorare i sintomi della malattia di Parkinson. Sono altresì sconsigliati i farmaci serotoninergici e gli oppioidi che possono peggiorare la rigidità e vanno impiegati con cautela.
Conclusioni
La malattia dei Parkinson è una condizione con un elevato rischio anestesiologico. È buona pratica per il neurologo redigere una procedura interna ospedaliera da condividere con altri specialisti per la gestione perioperatoria di pazienti affetti dalla malattia di Parkinson da sottoporre ad intervento chirurgico.
Dott.ssa Francesca Rossi
Ospedale Misericordia Grosseto
LA TRIADE DEI SINTOMI CLASSICI DELLA MALATTIA DI PARKINSON
– BRADICINESIA, definita come riduzione della mobilità autonoma e volontaria senza riduzione della forza muscolare;
– RIGIDITÀ, sovente asimmetrica, di tipo plastico, per cui cercando di muovere un arto di un soggetto con morbo di Parkinson si ha la sensazione di piegare un “tubo di piombo” o di modellare la cera;
– TREMORE A RIPOSO, a 4-6 cicli per secondo, che si differenzia per il tremore intenzionale (durante il movimento) tipico delle malattie cerebellari. Il tremore esordisce nelle porzioni distali degli arti, per il cui soggetto sembra contare le monete.
La malattia di Parkinson è la seconda malattia neuro-degenerativa dopo la malattia di Alzheimer ed interessa più di quattro milioni di individui nel mondo, di cui circa 10.000 in Emilia-Romagna.
Ha una prevalenza nei paesi industrializzati (numero di casi per 100.000 abitanti) di circa lo 0,3% dell’intera popolazione che sale all’1-2% nelle persone sopra i 70 anni.
Con l’invecchiamento della popolazione si prevede che il numero dei casi di malattia possa raddoppiare nei prossimi 30 anni.
La malattia di Parkinson è provocata dalla degenerazione dei neuroni delle cellule della Pars Compacta della Sostanza Nera che provoca una riduzione della dopamina nel circuito nigro-striatale, neuromediatore implicato nel movimento.
La neuroradiologia funzionale, PET e SPECT, è in grado di rilevare la carenza della dopamina a livello striatale già nelle prime fasi di malattia, contribuendo in modo significativo all’accuratezza della diagnosi. Vi è uno stretto legame di proporzionalità tra la perdita di cellule dopaminergiche e la sintomatologia clinica della malattia di Parkinson. Perché i sintomi motori della malattia appaiano, bisogna che più del 60-70% delle cellule della sostanza nera siano degenerate, ma il processo è molto lento e richiede molti anni, forse decadi. Esiste quindi una fase di malattia chiamata pre-motoria, in cui la perdita neuronale non è ancora tale da determinare i classici sintomi motori della malattia, cioè il tremore a riposo, la lentezza dei movimenti (bradicinesia), la rigidità e l’instabilità posturale.
Tali sintomi di solito appaiono unilateralmente per progredire al lato opposto negli anni successivi ed il compito della terapia farmacologica è di alleviarne l’intensità, cercando di mantenere il malato nella migliore condizione di autosufficienza possibile. La progressione della malattia è differente in ogni paziente ed un altro target del trattamento farmacologico è quello di rallentarne o di fermarne il decorso.
La ricerca di farmaci con proprietà neuroprotettive, cioè in grado di rallentare la progressione della malattia di Parkinson, è iniziata già negli anni 80 con lo studio Datatop, dove la Selegilina, inibitore irreversibile delle Mao B (I-Mao B), è stata confrontata con la vitamina E. I risultati dello studio hanno mostrato che il gruppo trattato con Selegilina manteneva per un numero maggiore di mesi un’autonomia tale da non richiedere l’aggiunta della levodopa rispetto a quelli che assumevano la vitamina E.
Tuttavia questi risultati sono stati in maggior parte attribuiti all’effetto sintomatico del farmaco piuttosto che ad una vera e propria azione neuroprotettiva intrinseca.
Un altro I-Mao B, la Rasagilina, è stato studiato negli anni scorsi per una sua possibile azione neuroprotettiva. Lo studio multicentrico TEMPO è stato progettato per valutare l’efficacia e la sicurezza della Rasagilina (Azilect) in monoterapia alla dose di 1 o 2 mg nelle fasi iniziali di malattia. Dopo 6 mesi di terapia la Rasagilina alla dose di 1-2 mg ha dimostrato una superiorità rispetto al placebo nel migliorare i punteggi della UPDRS* motoria. In particolare nel gruppo trattato col farmaco i punteggi dell’UPDRS* si mantenevano sostanzialmente invariati rispetto al basale (aumento di 0.5 punti con rasagilina 2 mg e riduzione di 0,13 punti con rasagilina 1 mg), mentre nel gruppo placebo si apprezzava un peggioramento di circa 4 punti nella parte motoria dell’UPDRS*.
Dopo 6 mesi, anche al gruppo di pazienti trattato con placebo veniva somministrata la Rasagilina alla dose di 2 mg, con un disegno denominato ad inizio ritardato (delayed start).
Ad un anno, il gruppo di pazienti che aveva iniziato la terapia con Rasagilina 2 mg con 6 mesi di ritardo mostrava punteggi superiori rispetto a quelli che fin dall’inizio avevano assunto il farmaco.
Nel gruppo trattato precocemente con 1 mg di Rasagilina, questa differenza era significativa in termini statistici, cosa che non avveniva per il gruppo trattato fin dall’inizio con 2 mg. Nonostante l’effetto neuroprotettivo possa essere mascherato da un’azione sintomatica, i risultati dello studio ci permettono di ipotizzare un beneficio per il paziente dall’inizio precoce della terapia, concetto che andrà confermato da analoghi trial in futuro.
Se l’idea del trattamento precoce della malattia di Parkinson è valida, in un prossimo futuro non è impensabile definire una popolazione a rischio di malattia attraverso l’osservazione dei sintomi non motori ed iniziare un trattamento neuroprotettivo già in questa fase.
In una indagine effettuata dal Medical Center di Rotterdam in Olanda e pubblicata sugli Archives of Neurology (Arch. Neurol. 2006; 63: doi: 10.1001/archneur. 63.3. noc51312), gli esperti hanno considerato un gruppo di 6038 adulti sani in età avanzata che sono stati tenuti sotto osservazione per quasi sei anni chiedendo loro di annotare situazioni anche appa-rentemente banali come movimenti involontari, cadute, lievi tremori o semplice rigidità dei movimenti.
Alla fine del periodo di osservazione poco meno di 60 individui avevano sviluppato la malattia di Parkinson.
Gli esperti hanno rilevato che, tra questi, il 71,8% si era lamentato anni prima di sintomatologia blanda come tremori e rigidità. Il 41% degli individui poi ammalatisi aveva sofferto, anni prima della diagnosi, anche di due o più “acciacchi” contemporaneamente.
I risultati dello studio danno supporto all’idea che la manifestazione clinica della malattia di Parkinson sia preceduta da una fase preclinica non completamente asintomatica che potrebbe corrispondere ad una fase della malattia molto precoce, talmente precoce che rende impossibili eseguire oggi la diagnosi. E’ oramai accertato che il tempo medio che intercorre tra l’inizio dei sintomi motori e la diagnosi sia superiore all’anno.
– Disturbo comportamentale del sonno REM (RBD – REM Behavior Disorders)
– Iposmia (riduzione dell’olfatto)
– Disfunzione Autonomica
– Stipsi
– Ipotensione ortostatica
– Depressione
I dopaminoagonisti sono entrati nella farmacopea della malattia di Parkinson alla fine degli anni 70 con la Bromocriptina che è stata il primo dopaminoagonista ad essere commercializzato. Per la verità già dagli anni 50 era nota un’altra molecola con proprietà agoniste dopaminergiche, l’Apomorfina, ma il suo utilizzo era frenato dagli effetti collaterali gastrici prodotti attraverso l’assunzione per via orale. Sono stati poi introdotti la Lisuride, la Diidroergocriptina e verso la seconda metà degli anni 90, il Pramipexolo ed il Ropinirolo e più recentemente il cerotto di Rotigotina. A differenza della levodopa che viene decarbossillata in dopamina a livello striatale e poi liberata nello spazio neuronale, i dopaminoagonisti saltano questo primo processo agendo diret-tamente sui recettori post-sinaptici della dopamina. Nelle fasi avanzate di malattia, causa la perdita neuronale nel sistema nigro-striatale, le capacità di immagazzinamento e rilascio della levodopa sono ridotte e legate prevalentemente alle concentrazioni ematiche di levodopa. I dopaminoagonisti con la loro lunga emivita, producono una stimolazione più continua del recettore dopaminergico rispetto alla levodopa riducendo il rischio di complicanze motorie e non presentano problemi di assorbimento o interferenza con cibi proteici. E’ oramai accertato che alla base delle discinesie e delle fluttuazioni motorie vi sia la stimolazione pulsatile come dimostrato da diversi studi sui primati.
Nelle scimmie, la somministrazione pulsatile prodotta con numerose dosi giornaliere di apomorfina, provocava la comparsa di discinesie dopo 7/10 giorni, cosa che non avveniva con il rilascio continuo dello stesso farmaco attraverso una pompa di infusione. Questo lavoro ci conferma che la stimolazione pulsatile è strettamente correlata con la comparsa delle discinesie, ma anche che oltre all’emivita del farmaco è importante anche la via e le modalità di somministrazione.
Infatti la stimolazione dopaminergica continua può essere ottenuta anche con farmaci a breve emivita come la Duodopa e l’Apomorfina, per mezzo di pompe che ne rendono costante la somministrazione che avviene per via duodenale mediante una gastrostomia percutanea (PEG) per la Duodopa o per via sottocutanea per l’Apomorfina.
I dopaminoagonisti possono essere suddivisi in due grandi classi: gli agonisti ergolinici cioè derivanti dalla segale cornuta e quelli non ergolinici. I dopaminoagonisti ergolinici (Bromocriptina, Cabergolina, Diidroergocriptina, Lisuride, Pergolide) possono provocare, seppure raramente, sierositi pleuriche, pericardiche e peritoneali e/o fibrosi.
Per il rischio di comparsa di valvulopatie cardiache sono di fatto poco utilizzati nella pratica quotidiana a vantaggio dei preparati non ergolinici, quali ropinirolo (Requip), pramipexolo (Mirapexin) e rotigotina (Neupro). Mediata dalla loro azione sui recettori D3, i dopaminoagonisti non ergolinici hanno anche una azione sul tono dell’umore migliorando uno dei sintomi non motori maggiormente frequenti nella malattia di Parkinson: la depressione che interessa circa il 40-50% dei pazienti.
Una delle principali complicanze della terapia con levodopa, sono le discinesie, movimenti involontari, che possono portare a gravi complicazioni quali cadute, fratture, calo di peso ed essere estremamente invalidanti con peggioramento della qualità della vita dei pazienti. Le discinesie di solito insorgono dopo tre-cinque anni dall’inizio della terapia con levodopa e dipendono da numerosi fattori, quale la dose cumulativa totale di levodopa assunta, il numero di somministrazioni giorna-liere, l’età del paziente, la variante clinica di malattia etc…
Sono causate da modificazioni dei recettori della dopamina che diventano supersensibili, causa la stimolazione pulsatile legata alla breve emivita della levodopa.
Per ovviare a questi problemi, da almeno tre decenni, si cerca di iniziare la terapia delle fasi iniziale della malattia di Parkinson con farmaci con una emivita più lunga della levodopa: i dopaminoagonisti.
I dopaminoagonisti hanno una minor efficacia della levodopa sui sintomi motori ma riducono anche il rischio della comparsa di complicanze motorie, cioè fluttuazioni motorie e discinesie.
Questo dato è inconfutabile e supportato dai risultati ottenuti da diversi grossi studi multicentrici che hanno mostrato come l’impiego dei dopaminoagonisti sia ergolinici (pergolide e cabergolina) che non ergolinici (ropinirolo, pramipexolo) possa ridurre di circa il 40% l’insorgenza delle discinesie e fluttuazioni motorie dopo 3-5 anni di terapia nel gruppo trattato con tali farmaci. Nel caso del Ropinirolo la prosecuzione dello studio 056 ha dimostrato che la riduzione delle discinesie era presente nel gruppo che aveva iniziato al terapia con il da-agonista anche dopo dieci anni di terapia, nonostante che la maggior parte dei pazienti fosse in terapia combinata con levodopa. Nessuna differenza era stata riscontrata nei due gruppi per quanto riguarda la frequenza di sonnolenza ed il livello di gravità della malattia, disabilità e qualità di vita dei pazienti.
In uno studio clinico (Jama 2000; 284: 1931-1938), in doppio cieco, randomizzato, la levodopa è stata messa a confronto con il pramipexolo (Mirapexin) nel trattamento di pazienti con malattia di Parkinson in fase iniziale. Il pramipexolo ha ritardato in modo significativo rispetto alla levodopa le complicanze motorie. Nel gruppo di pazienti trattati con levodopa combinata a pramipexolo, il minor dosaggio di levodopa somministrato ha evidenziato una percentuale significativamente minore di discinesie rispetto al gruppo trattato con la sola levodopa. A 2 anni, il 72% dei pazienti trattati in monoterapia con pramipexolo risultava libero da fenomeni di “wearing off”, da effetti “on-off” e da discinesie contro il 49% dei pazienti che invece avevano assunto inizialmente levodopa.
In conclusione, l’uso dei dopaminoagonisti riduce significativamente la comparsa di complicanze motorie e permette un buon controllo della sintomatologia motoria nei primi 3-5 anni di terapia, vi è tuttavia un maggiore rischio di effetti collaterali quali sonnolenza, colpi di sonno ed allucinazioni visive.
Nei pazienti di età inferiore ai 65 anni è oramai pratica comune iniziare con un dopaminoagonista, aggiungendo la levodopa quando le condizioni cliniche lo richiedano.
Attualmente sono disponibili diversi interessanti farmaci per il trattamento della malattia di Parkinson idiopatica. Particolare attenzione deve essere prestata al momento della loro somministrazione per evitare reazioni avverse con l’uso concomitante di altri prodotti farmacologici.
Per realizzare un trattamento terapeutico sicuro è quindi indispensabile prescrivere schemi terapeutici corretti, controllabili, assumendo la dose idonea del farmaco nei tempi adeguati.
E’ altresì indispensabile che la somministrazione dei farmaci sia regolare e direttamente controllata.
Le linee guida che valutano la sicurezza e l’efficacia di un farmaco antiparkinson si basano sull’evidenza scientifica: il farmaco riduce la rigidità, il tremore e l’acinesia? migliora l’autonomia del malato nella gestione delle attività quotidiane? migliora la qualità della vita?
L’evidenza scientifica si ottiene attraverso sperimentazioni cliniche, ad esempio con trials a doppio cieco, quando cioè nè i partecipanti, nè il personale di ricerca sono a conoscenza di quali siano i pazienti che ricevono la terapia sperimentale e quali siano quelli che ricevono quella standard, o il placebo.
Da tali studi clinici deve emergere se il farmaco è in grado di ridurre i tempi “off “ e di aumentare i tempi “on” rispetto al placebo.
Due farmaci di particolare interesse per il trattamento della malattia di Parkinson sono Azilect® (rasagilina) e Xilopar® (selegilina cloridrato).
Il trattamento della sindrome di Parkinson idiopatica (così definita poiché non se ne conoscono le cause) è divenuto, in questi ultimi anni, sempre più complesso. Da una parte vi sono a disposizione svariate nuove tecniche di trattamento farmacologico e chirurgico, dall’altra si è potuto acquisire una esperienza di oltre trenta anni di trattamento con la levodopa.
Indichiamo le attuali categorie di farmaci utilizzate per contrastare la sintomatologia della malattia di Parkinson.
LEVODOPA PIU’ INIBITORE DELLA DECARBOSSILASI
La levodopa è il precursore naturale della dopamina. La dopamina non può essere somministrata direttamente come farmaco non riuscendo a superare la barriera emato-encefalica e raggiungere, quindi, il cervello.
Gli inibitori periferici della Dopadecarbossilasi (un enzima la cui funzione è di trasformare la levodopa in dopamina) costituiscono dei preparati farmacologici supplementari i quali impediscono che la levodopa sia trasformata precocemente in dopamina nelle sedi extracerebrali (cioè al di fuori del cervello). I farmaci che svolgono questa funzione essenziale e che rappresentano la terapia antiparkinson per eccellenza sono:
– Madopar (preparato Retard: Madopar HBS) a base di levodopa e benserazide;
– Sinemet (preparato Retard: Sinemet CR) costituito da levodopa e carbidopa.
Attraverso i preparati Retard, la levodopa viene liberata lentamente con l’obiettivo di ridurre le oscillazioni dei livelli della levodopa nel sangue. Presentano, quindi, la capacità di controllare più efficacemente le fluttuazioni motorie.
Con la formulazione standard, a rilascio immediato di levodopa, si può ottenere, invece, una maggiore efficacia nel controllo della sintomatologia. Può risultare utile l’impiego di entrambe le formulazioni in associazione.
SIRIO® (MELEVODOPA+CARBIDOPA)
SIRIO è una nuova formulazione di levodopa, sottoforma di metilestere della levodopa (melevodopa) associato a carbidopa (inibitore delle “dopa” decarbossilasi) che si presenta sottoforma di compresse effervescenti nel seguente dosaggio:
a) 125 mg levodopa + 12,5 mg carbidopa (rapporto levodopa/carbidopa 10:1)
b) 100 mg levodopa + 25 mg carbidopa (rapporto levodopa/carbidopa 4:1).
Le compresse effervescenti si dissolvono completamente in acqua, senza formare depositi. L’alta solubilità è una caratteristica molto importante in quanto non solo facilita la somministrazione ma aumenta la rapidità di assorbimento assicurando una rapida insorgenza dell’effetto terapeutico sulla sintomatologia parkinsoniana.
DUODOPA®
SOMMINISTRAZIONE INTRA-DUODENALE DI LEVODOPA-CARBIDOPA
La Duodopa (levodopa+carbidopa) prodotta dalla casa farmaceutica Solvay Pharma è disponibile in Italia e viene somministrata mediante la PEG cioè con l’aiuto di una pompa portatile che, attraverso un tubicino, fornisce la levodopa-carbidopa, dispersa in un gel viscoso, direttamente nel duodeno determinando una stimolazione dopaminergica continua.
Vale a dire che bisogna eseguire un piccolo intervento chirurgico con il posizionamento di un tubicino direttamente nel duodeno.
E’ un farmaco indicato solo in pochi casi selezionati. La Duodopa è in fascia H, distribuzione ospedaliera.
LEVOMET®
LEVODOPA IN GRANULATO PER SOLUZIONE ORALE ESTEMPORANEA
Il preparato farmacologico Levomet contiene, come principio attivo, levodopa metile cloridrato, un derivato della levodopa altamente solubile.
STALEVO®
LEVODOPA +CARBIDOPA+ENTACAPONE
Per il trattamento dei pazienti con malattia di Parkinson che presentano fluttuazioni motorie giornaliere di “fine dose” non stabilizzate con la terapia a base di levodopa+inibitori delle dopa decarbossilasi.
AMANTADINA®
Venne, per caso, scoperto negli anni sessanta come farmaco in grado di migliorare i sintomi dei pazienti con malattia di Parkinson colpiti da influenza asiatica. La sua efficacia è certamente modesta ed inferiore a quella della levodopa, specialmente nel trattamento a lungo termine.
Dei tre principali sintomi parkinsoniani, quello maggiormente influenzato da questo farmaco è il tremore. Comunque, somministrata con altri farmaci (anticolinergici o levodopa) mostra di avere una efficacia anche sulla bradicinesia (lentezza nei movimenti).
In associazione con la levodopa consente spesso di ridurre la dose ottimale di levodopa poiché ne potenzia l’effetto.
Il suo presunto effetto neuroprotettivo (efficacia protettiva delle cellule nervose) fino ad ora non è stato dimostrato clinicamente.
AGONISTI DELLA DOPAMINA
Questi farmaci simulano l’effetto della dopamina e ne compensano quindi la carenza a livello cerebrale nei pazienti parkinsoniani. Esemplificando, costituiscono “chiavi false” che il cervello accetta come originali. Devono essere somministrati gradatamente altrimenti possono far insorgere nel malato nausea e vomito.
INIBITORI DELLE COMT
Gli inibitori delle COMT vengono somministrati insieme con un farmaco a base di levodopa di cui ne prolungano l’azione bloccando gli enzimi (Catecol-O-metil-Transferasi) responsabili della degradazione della levodopa e della dopamina.
ANTICOLINERGICI
I farmaci anticolinergici cercano di ristabilire nel cervello il regolare ed equilibrato funzionamento dei neurotrasmettitori, disturbato dalla mancanza di dopamina: l’eccesso del neurotrasmettitore Acetilcolina viene diminuito. Come noto, i neurotrasmettitori sono particolari sostanze chimiche che nel cervello fungono da intermediari per la propagazione degli impulsi nervosi fra i neuroni.I pazienti affetti da cataratta che assumano farmaci anticolinergici necessitano di un controllo periodico da parte dell’oculista.
INIBITORE DELLE MAO-B
L’inibitore delle MAO-B inibisce la distruzione della dopamina (bloccando gli enzimi monoaminossidasi B che distruggono la dopamina) e ne aumenta, quindi, la disponibilità a livello cerebrale. La speranza che questo farmaco abbia un influsso protettivo sulle cellule nervose ancora sane non è confermata scientificamente.
E’ indispensabile, per ottenere un soddisfacente controllo della sintomatologia parkinsoniana, verificare la risposta terapeutica dell’organismo dopo la somministrazione di una determinata dose di farmaco assunta dal paziente ad orari prestabiliti, durante la giornata.
Diventa, quindi, fondamentale, per la salute del malato, individuare sia il giusto dosaggio farmacologico, sia i corretti tempi di somministrazione.
LE DOMANDE PIU’ COMUNI
Ma quali problemi si presentano in questa non semplice ricerca? Come deve comportarsi il paziente? In che modo deve spiegarsi allo specialista?
Come noto, la malattia di Parkinson è causata da una diminuzione di dopamina in una specifica area cerebrale (sostanza nera encefalica). La dopamina è un neurotrasmettitore il cui compito specifico consiste nel regolare i movimenti del corpo. Il trattamento farmacologico del morbo di Parkinson si incentra primariamente nella somministrazione di farmaci che ripristinano le scorte esaurite di dopamina a livello cerebrale. Purtroppo, il trattamento farmacologico integrativo della dopamina non determina la scomparsa dei sintomi della malattia. Quali sono i sintomi che si manifestano con un basso dosaggio farmacologico? Il paziente può, invece, assumere dosi elevate di farmaco? .
Come può fare il malato per capire ed interpretare le reazioni dell’organismo dopo la somministrazione di determinate quantità farmacologiche? Che cosa deve segnalare allo specialista e alla sua équipe?
OSSERVARE I SINTOMI
Sono domande alquanto difficili poiché la risposta terapeutica individuale è estremamente variabile. Ogni malato parkinsoniano non è simile ad un altro. I sintomi si manifestano in modo differente da persona a persona e, per di più, i sintomi e la risposta ai farmaci variano nella medesima persona da un giorno all’altro. Anche se il malato segue esattamente, ogni giorno, la stessa prescrizione farmacologica, la stessa dieta e la stessa attività potrebbe presentare reazioni diverse ai farmaci. Ciò è causato da altri fattori che influenzano la risposta dell’organismo. Può accadere che un trattamento farmacologico ritenuto fino allora soddisfacente subisca un improvviso calo di efficacia, rendendolo in tal modo completamente vanificato. Precise indicazioni fornite dallo stesso paziente e dai suoi familiari rappresentano uno strumento essenziale a disposizione dello specialista per individuare la terapia più valida nel controllo della malattia. E’ importante, fin dall’inizio della malattia, osservare i sintomi che si presentano nel paziente sia a bassi dosaggi di farmaco, sia con la somministrazione di quantità farmacologiche più elevate.
DOSI MINIME DI FARMACO
Tremore, lentezza nel movimento, rigidità muscolare sono i sintomi della malattia di Parkinson che possono manifestarsi dopo l’assunzione di una bassa quantità di farmaco. E’ possibile, inoltre, riscontrare difficoltà nell’equilibrio, nel cammino oppure nel compiere un qualsiasi altro movimento, nell’esprimersi o nell’inghiottire. Alcuni pazienti affermano di avvertire un tremore interno o agitazione, di essere irritabili, di sentirsi deboli, di coordinare il pensiero in modo più lento del normale. Gli stessi specialisti definiscono lo stato del paziente “OFF” quando viene a trovarsi con bassi livelli di farmaco.
DOSI ELEVATE DI FARMACO
Il Sinemet o altri farmaci antiparkinson somministrati da soli oppure associati fra di loro, possono produrre effetti collaterali. Molti pazienti lamentano una sensazione di nervosismo, di irrequietezza, di irritabilità, di agitazione da non riuscire a rimanere seduti e perfino casi di intossicazione da farmaco.
L’effetto collaterale più comune che si manifesta a dosaggi elevati di farmaco è rappresentato dalla comparsa di discinesie, cioè movimenti involontari dei muscoli. Queste possono riguardare alcune parti corporee (una mano, un braccio) o essere generalizzate in tutto il corpo. Non sono dolorose e pertanto risulta abbastanza difficile scoprirne l’esistenza quando sono ad un livello minimale. I movimenti involontari compaiono di solito nel momento di massima efficacia della dose di levodopa, momento in cui è più elevata la sua concentrazione plasmatica (discinesie di picco dose). Molti pazienti affermano che preferiscono muoversi agevolmente anche con leggere discinesie piuttosto che affrontare le difficoltà causate dalla malattia. Tuttavia è importante notare che ancora non sono ben conosciuti gli effetti a lungo termine derivanti dalla somministrazione di quantità elevate di farmaco. Teoricamente, dosi elevate di levodopa potrebbero causare dannose alterazioni metaboliche. Occorre, quindi, che le dosi di farmaco somministrate siano equilibrate. Se il malato assume farmaci in una quantità maggiore di quello che può tollerare potrebbe, infatti, riscontrare disturbi nel sonno, incubi e perfino allucinazioni. Il paziente, in questi casi, ne deve subito parlare con il proprio specialista. Per eliminare tali problemi il medico dovrà correggere la terapia farmacologica.
EFFETTI COLLATERALI
La frequenza della comparsa di discinesie ed altri effetti collaterali varia in rapporto alla durata del trattamento con levodopa, andando dal 5% dei casi dopo un anno, all’80% dopo il decimo anno. L’esperienza in questo campo suggerisce di considerare ogni malato parkinsoniano come un caso a sé stante, che richiede una terapia personalizzata sulla base di specifiche esigenze. Si raccomanda, quindi, al malato di effettuare una osservazione attenta e di registrare, giornalmente, in un apposito diario di autovalutazione, qualsiasi movimento involontario che possa notare nella propria persona. Queste osservazioni saranno di notevole aiuto allo specialista che potrà prescrivere la dose farmacologica ottimale nonché individuare i tempi di una corretta somministrazione. Un altro sintomo di rilievo è la distonia, cioè un crampo o uno spasmo muscolare talora doloroso. Il crampo può interessare le dita della mano, le dita del piede, il piede, i muscoli del polpaccio, la schiena, il collo, la faccia o la mandibola. In passato si pensava che i crampi muscolari fossero un effetto collaterale della terapia farmacologica ma attualmente è stato accertato che questi possono essere i primi sintomi della malattia, quando ancora al paziente non sia stata prescritta alcuna terapia. Una volta che il paziente è trattato con levodopa, la distonia può presentarsi in due momenti: quando il farmaco raggiunge il massimo livello nel sangue oppure prima di assumere la “prima” dose del mattino. E’ necessario, quindi, riferire accuratamente i sintomi in rapporto al tempo di assunzione del farmaco. Lo specialista da ciò che ha riscontrato il paziente modificherà opportunamente la terapia per ridurre la distonia. Un gruppo di farmaci denominati dopamino-agonisti (bromocriptina e pergolide) risultano essere efficaci per risolvere e prevenire i crampi. Anche i farmaci anticolinergici (triesifenidile e benzatropina) rappresentano valide misure per il trattamento della distonia nella malattia di Parkinson.
MIGLIORI RISULTATI
Le risposte dell’organismo ai farmaci debbono essere oggetto di una attenta osservazione. Nel morbo di Parkinson è indispensabile, quindi, un costante controllo del trattamento farmacologico per poterlo adeguare efficacemente alle diverse esigenze manifestate dal malato lungo il decorso della malattia.
Il paziente con la propria famiglia, lo specialista e la sua équipe debbono collaborare insieme per riuscire ad impostare un programma terapeutico soddisfacente. In tal modo si potranno ottenere notevoli vantaggi nel controllo della malattia.
Nel morbo di Parkinson si rende necessario effettuare un accurato e costante controllo delle capacità motorie del paziente.
Solamente attraverso una attenta e scrupolosa osservazione è possibile, infatti, adeguare costantemente la terapia alle mutevoli condizioni della malattia.
In questa ottica, le indicazioni fornite dal malato costituiscono la fonte primaria di informazione dello specialista e diventano, pertanto, fondamentali per l’impostazione di un efficace e valido trattamento farmacologico.
A questo proposito, l’Unione Parkinsoniani ha realizzato una scheda di facile ed agevole compilazione che consente al paziente di registrare, dettagliatamente, sia le difficoltà motorie, sia i movimenti indesiderati che si manifestano, ora per ora, nell’arco della giornata, specificandone l’entità (lievi, moderati, gravi).
Si raccomanda, in particolare, di compilare adeguatamente in ogni sua parte lo schema proposto, riportando nel quadro le varie osservazioni raccolte durante l’intera settimana che precede la visita di controllo.
Ciò consentirà allo specialista di effettuare una corretta valutazione delle condizioni del paziente e di individuare, con particolare sicurezza e precisione, i periodi della giornata che necessitano di un maggior controllo terapeutico.
Nella scheda, inoltre, sono richieste ulteriori informazioni riguardanti la malattia in corso, i valori della pressione arteriosa ed il peso corporeo.
Coloro che sono interessati possono richiedere la scheda per il controllo motorio rivolgendosi alla sede dell’Associazione o scaricarla cliccando qui.
Vi verrà chiesto se volete salvare sul vostro computer, oppure aprire direttamente, un file di nome scheda.zip.
Per aprilo in ogni caso vi occorre WinZip, che potete scaricare a questo indirizzo: http://www.winzip.com/downhome.htm .
Sono passati più di trent’anni da quando la levodopa è stata introdotta nella terapia antiparkinson.
Questa molecola era già nota alla comunità scientifica fin dai primi anni del novecento ma solamente agli inizi degli anni sessanta fu osservata la sua efficacia nella malattia di Parkinson.
Ricordiamo i progressi, registrati in questo secolo, nella cura del morbo di Parkinson caratterizzata, come accade spesso per le scoperte in medicina, da un percorso tortuoso cosparso di colpi di genio e d’ingenuità, d’intuizioni brillanti e di errate premesse, di soluzioni clamorose e di fallimenti fortunatamente positivi.
1912-1913
Un chimico polacco Casimir Funk ipotizza, sulla base della sua struttura, che la levodopa possa essere un precursore dell’adrenalina.
In quel periodo un farmacologo di Sassari, Torquato Torquati, incuriosito dalla colorazione nerastra che compare nelle fave qualche giorno dopo la raccolta, estrae da queste una sostanza contenente azoto che risponde ai reattivi per la pirocatechina. Nei laboratori farmaceutici Roche di Basilea, Markus Guggenheim sta studiando da tempo le “amine proteinogene”, sostanze che non derivano da proteine, ma da composti biologici più semplici, come gli aminoacidi.
Incuriosito dai dati di Torquati, ne replica il lavoro e riesce a identificare per primo la levodopa. Il compito gli viene facilitato dal fatto che le fave sono uno dei piatti preferiti di Fritz Hoffmann-La Roche, fondatore della casa farmaceutica.
Egli ne possiede un intero campo proprio dietro la fabbrica e ben volentieri mette a disposizione di Guggenheim un generoso quantitativo.
Per l’estrazione della levodopa sono, infatti, necessari almeno dieci chili di fave!
Guggenheim comprende gli stretti rapporti fra adrenalina e levodopa, ma non riesce ad evidenziarne il ruolo biologico, se non per la formazione della melanina.
1920
La levodopa viene sintetizzata industrialmente e messa a disposizione dei ricercatori dalla Biochimica Roche.
1960
Nell’ambito degli studi sull’ipertensione arteriosa, l’attenzione dei ricercatori è rivolta alla noradrenalina, un neurotrasmettitore implicato nella trasmissione degli impulsi tra le cellule nervose e tra queste ed i vasi sanguigni, che stimola l’aumento della pressione sanguigna.
La noradrenalina viene formata nel tessuto nervoso a partire dalla dopamina, che a sua volta deriva dalla levodopa attraverso l’azione dell’enzima decarbossilasi.
L’ipotesi dei ricercatori è che inibendo la decarbossilasi si sarebbe ridotta la concentrazione di noradrenalina nelle fibre nervose delle pareti vascolari, e quindi si sarebbe abbassata la pressione sanguigna.
Il gruppo di ricerca della Roche riesce a scoprire uno dei più potenti inibitori della decarbossilasi (Ro 4-4602, successivamente ribattezzato benserazide).
Questo iniziale successo viene però seguito da una doccia fredda: l’inibitore non abbassa la pressione sanguigna nell’uomo.
In realtà la molecola riusciva effettivamente ad inibire la formazione di dopamina a partire dalla levodopa, ma non a ridurre la quantità di noradrenalina presente nel sistema nervoso.
Lo sviluppo di Ro-4-4602 come farmaco antiipertensivo ha una battuta d’arresto.
1961
Walther Birkmayer utilizza la levodopa per il trattamento di alcuni pazienti parkinsoniani dietro suggerimento dei biochimici Ehringer e Hornykiewicz, che avevano riscontrato un basso contenuto di dopamina nel cervello di pazienti deceduti per la malattia di Parkinson.
Visti gli effetti spettacolari ottenuti, Birkmayer si reca a Basilea per convincere la società Roche a produrre la levodopa su larga scala e ad intraprendere studi clinici più allargati.
La casa farmaceutica Roche aderisce alla richiesta nonostante i risultati ottenuti da Birkmayer siano contestati da vari ambienti scientifici.
Per verificare se gli effetti osservati siano veramente dovuti alla trasformazione nel cervello della levodopa in dopamina, si consiglia al clinico di somministrare ai suoi pazienti, insieme alla levodopa, un po’ di benserazide.
La potente inibizione della decarbossilasi esercitata dal farmaco avrebbe dovuto impedire la trasformazione della levodopa in dopamina e quindi annullare ogni effetto clinico. Grande sorpresa quando, dopo qualche tempo, Birkmayer riferisce che non solo la benserazide non ha diminuito l’attività della levodopa, ma che anzi l’ha notevolmente aumentata.
1967
Pletscher ed il suo collaboratore italiano Giuseppe Bartolini con una elegante serie di ricerche chiariscono definitivamente il meccanismo di azione della benserazide. Questa sostanza non è in grado di attraversare la barriera emato-encefalica. Per questo motivo impedisce la trasformazione della levodopa in dopamina nei distretti extra-cerebrali (reni, fegato, intestino…) incrementando, quindi, l’apporto della levodopa al cervello dove la decarbossilasi non inibita può trasformarla in dopamina.
1970
Dopo i risultati clinici decisivi ottenuti da Cotzias negli Stati Uniti al termine del proprio programma di ricerche, la casa farmaceutica Roche mette finalmente in commercio in tutto il mondo la levodopa.
1973
Gli studi clinici intrapresi successivamente chiariscono il rapporto migliore tra dosi di levodopa e benserazide (Madopar) e conducono all’introduzione delle due sostanze nella terapia del morbo di Parkinson. Successivamente viene individuato un altro inibitore periferico dell’enzima della decarbossilasi extracerebrale: la carbidopa (Sinemet).
1986
Un altro passo importante è avvenuto con lo sviluppo dei preparati farmacologici di levodopa a lento rilascio (Madopar HBS e Sinemet CR). Tali preparati, essendo assorbiti più lentamente, garantiscono livelli plasmatici di levodopa maggiormente stabili e duraturi capaci di controllare più efficacemente le fluttuazioni motorie attraverso una stimolazione dopaminergica più continua.
Anche la formulazione di levodopa solubile in acqua a rapido assorbimento (Madopar dispersibile) costituisce una altro passo avanti per il miglioramento della terapia essendo in grado di risolvere rapidamente i periodi di blocco motorio (“off”).
Il resto è storia recente.
“Il morbo di Parkinson”: Dall’ipertensione al Parkinson di Alfred Pletsche
“Il paziente parkinsoniano: Uomini e Dopa” di Luciano Redenti
Editoriale della Ricerca Roche (marzo 1995 / dicembre 1998)
Per puntualizzare alcune affermazioni contrastanti riguardanti la terapia con Levodopa, nel gennaio 1998, a Parigi, si è svolta una “consensus conference” che ha ribadito i seguenti concetti:
1) La Levodopa è il farmaco più efficace nel trattare i sintomi della malattia di Parkinson e permette di ridurre la mortalità legata alla malattia.
2) Non vi è alcuna evidenza che il trattamento prolungato con Levodopa contribuisca, attraverso cataboliti tossici, ad aggravare o ad accelerare le lesioni neuro-degenerative della malattia di Parkinson.
3) Le fluttuazioni motorie indotte dal trattamento prolungato con Levodopa sono anche legate alla degenerazione dei sistemi dopaminergici cerebrali. In particolare il fenomeno di fine dose è legato ad una ridotta capacità di immagazzinare la dopamina nelle vescicole presinaptiche dei neuroni dopaminergici.
4) Nei modelli animali di parkinsonismo non è dimostrato con sufficiente certezza che dosi terapeutiche di Levodopa provochino o accelerino la morte delle cellule della sostanza nera mesencefalica.
5) La Levodopa può provocare la morte delle cellule ma solo in preparati di laboratorio, a dosi molto elevate ed in assenza di cellule gliali. Si verificano quindi condizioni particolari molto differenti da quello che succede nel soggetto malato di morbo di Parkinson.
In conclusione non emergono dati a sostegno della neurotossicità della Levodopa ed in particolare i pazienti che assumono questo farmaco non corrono nessun pericolo.
DR. AUGUSTO SCAGLIONI
Neurologo
Il preparato farmacologico Levomet contiene, come principio attivo, levodopa metile cloridrato, un derivato della levodopa altamente solubile.
Il prodotto si presenta in forma di granulato per soluzione orale, la cui preparazione consiste:
– nel versare il flacone della soluzione solvente nel flacone contenente il granulato;
– chiudere il flacone e agitare fino a completa dissoluzione;
– avvitare la pompetta dosatrice sul flacone;
– conservare la soluzione ricostituita in frigorifero a temperatura compresa tra +2° e +8° C.
L’elevata solubilità di tale preparato consente un assorbimento significativamente più rapido e affidabile della levodopa rispetto alle preparazioni tradizionali.
La preparazione liquida risulta, infatti, più facile da deglutire, con una migliore possibilità di transito faringo-esofageo e, quindi gastrico.
Ciò favorisce l’assorbimento intestinale della levodopa che passa in tempi rapidi dall’intestino al sangue e da questo al cervello.
Una più rapida disponibilità di levodopa a livello cerebrale consente di intervenire con migliore efficacia sulle fluttuazioni motorie (periodi di buona motilità si alternano a periodi di blocco motorio) resistenti alla terapia antiparkinson tradizionale (levodopa+inibitori periferici della decarbossilasi in formulazione compresse) in pazienti affetti da morbo di Parkinson complicato.
Studi clinici effettuati hanno, però, dimostrato che tale formulazione, non essendo associata ad un inibitore delle dopadecarbossilasi come le formulazioni standard di levodopa, consente alla levodopa di raggiungere in tempi rapidi una elevata concentrazione a livello ematico ma, poi, tale concentrazione decade in modo piuttosto repentino.
Per garantire un livello maggiormente stabile di levodopa nel sangue e, quindi, ottenere benefici terapeutici più prolungati, l’uso di questo prodotto va associato alle altre preparazioni standard di levodopa (Madopar o Sinemet) e, in particolare, alle formulazioni di levodopa a rilascio controllato (Madopar HBS e Sinemet CR).
Con questa ultima combinazione sono sfruttate appieno le qualità di entrambe le formulazioni: immediatezza e previdibilità di azione della levodopa metile (Levomet) e prolungamento dell’efficacia con il lento rilascio.
Un altro vantaggio di questa formulazione è la sua maneggevolezza che consente di modulare il dosaggio secondo le reali necessità del paziente: la possibilità di dosarla con assoluta precisione rende infatti possibile la somministrazione anche di microdosi di farmaco, non altrimenti frazionabili con le preparazioni convenzionali.
La preparazione liquida può, inoltre, risultare indispensabile negli eventi post-operatori e nei pazienti con severi problemi di deglutizione.
Da “Profili di prodotto” –
Chiesi Farmaceutici S.p.A. – Parma
Il Sinemet è un farmaco composto da levodopa (precursore della dopamina) e da Carbidopa, un inibitore della Decarbossilasi periferica che evita la trasformazione della levodopa in dopamina a livello periferico consentendo così il massimo apporto della levodopa all’encefalo dove si trasformerà in dopamina, il neurotrasmettitore carente nei malati parkinsoniani.
E’ stato ormai accertato che l’assunzione protratta nel tempo del Sinemet può determinare nel paziente parkinsoniano lo sviluppo di una complessa sintomatologia motoria con la conseguente riduzione dei precedenti benefici.
Benché sussistano queste problematiche, il malato non deve mai interrompere tale trattamento farmacologico.
E’ stato, infatti, riscontrato che dopo circa cinque anni di trattamento della malattia di Parkinson con il Sinemet molti pazienti presentano delle fluttuazioni motorie (buoni momenti di motilità si alternano a momenti di blocco motorio).
Le cause della loro comparsa non sono fino ad ora del tutto chiare.
Alcuni specialisti collegano lo sviluppo delle fluttuazioni motorie sia al livello del dosaggio del farmaco, sia alla durata del trattamento con il Sinemet.
Tale opinione non è però condivisa da tutti i parkinsonologi.
La maggior parte degli specialisti concorda nel ritenere che il Sinemet costituisce di gran lunga il più efficace farmaco per il trattamento della malattia di Parkinson e che per la sua prescrizione non si dovrebbe attendere il momento in cui i sintomi della malattia di Parkinson iniziano ad interferire nella vita del paziente.
A causa degli effetti collaterali che si possono manifestare, l’obiettivo fondamentale da porsi è di individuare quale sia la dose farmacologica minima necessaria per rendere la vita quotidiana del paziente ad un livello soddisfacente, piuttosto che cercare di eliminare tutti i sintomi della malattia.
La più comune delle fluttuazioni motorie è conosciuta come “wearing off” o perdita di efficacia della singola dose. Questo significa che l’efficacia della singola dose di Sinemet si esaurisce dopo un breve tempo dalla sua assunzione e molto prima che possa avere effetto la dose successiva. Durante questo intervallo riappaiono i sintomi della malattia di Parkinson. In questa condizione la prestazione motoria va soggetta a modificazioni in stretto rapporto con gli orari di assunzione del farmaco. Si tratta quindi di fluttuazioni che presentano un andamento prevedibile e ripetitivo durante l’arco della giornata.
Quando le fluttuazioni motorie diventano più marcate e più rapide nel loro instaurarsi, si ha il fenomeno “on-off” che consiste nel passaggio brusco, talora in pochi secondi, dall’autonomia completa (fase “on”) al blocco motorio completo (fase “off”). I pazienti con questo fenomeno subiscono, quindi, improvvise variazioni del loro stato di benessere non correlate ai tempi di assunzione del Sinemet. Altro effetto collaterale derivato dal Sinemet è la comparsa di eccessivi movimento involontari, conosciuti come discinesie.
Nonostante la complessità di questo quadro clinico determinato dal trattamento farmacologico con il Sinemet, l’assunzione di questo farmaco non deve cessare anche se si verificano tali effetti collaterali.
Attualmente, per controllare questi effetti collaterali si ricorre a differenti strategie terapeutiche quali il frazionamento delle dosi di levodopa, l’uso di formulazioni di levodopa a lento rilascio (Sinemet CR o Madopar HBS) o l’associazione della levodopa con altre categorie di farmaci quali i dopaminoagonisti (apomorfina, pergolide, pramipexolo, bromocriptina, lisuride, ropinirolo, cabergolina), gli inibitori delle MAO-B (selegilina) o gli inibitori delle COMPT (tolcapone e entacapone). Queste ultime categorie di sostanze bloccano gli enzimi che catabolizzano la levodopa e rendono disponibile una maggiore quantità di levodopa che può essere trasformata in dopamina.
E’ commercializzata in Italia una nuova formulazione di levodopa, sottoforma di metilestere della levodopa (melevodopa) associato a carbidopa (inibitore delle “dopa” decarbossilasi), denominata Sirio® (Chiesi).
E’ disponibile come compresse effervescenti in 2 formulazioni di dosaggio (classe A, dispensabili SSN):
a) 125 mg levodopa + 12,5 mg carbidopa (rapporto levodopa/carbidopa 10:1)
b) 100 mg levodopa + 25 mg carbidopa (rapporto levodopa/carbidopa 4:1).
La melevodopa, a differenza della levodopa, presenta un’elevata solubilità in acqua e in vivo viene totalmente idrolizzata a levodopa.
Le formulazioni liquide di levodopa per via orale (Madopar Dispersibile®, Levomet®) sono state messe a punto con lo scopo di eliminare la fase di disgregazione gastrica delle compresse, favorendo un più rapido assorbimento del farmaco e possibilmente una più rapida comparsa dell’effetto terapeutico nei pazienti che lamentano ritardi nella comparsa della risposta motoria, specie post-prandiale.
Studi controllati hanno dimostrato nei volontari sani una riduzione del tempo di picco delle concentrazioni plasmatiche di levodopa con Sirio® rispetto alle formulazioni standard (Sinemet®), che si può tradurre in una più rapida risoluzione dei fenomeni di “blocco” motorio in pazienti selezionati.
La biodisponibilità di levodopa è risultata equivalente con i due preparati.
Le compresse effervescenti di Sirio® vanno sciolte in circa 150 ml d’acqua.
Viene consigliato un dosaggio massimo di mantenimento di 6 compresse al giorno.
Il nuovo prodotto è in fascia A del Prontuario farmaceutico nazionale, la spesa è quindi a completo carico del Servizio Sanitario Nazionale.
La Duodopa® in infusione duodenale tramite pompa programmabile
Il farmaco Duodopa è una formulazione veramente innovativa che permette di erogare la levodopa in modo continuo, direttamente a livello duodenale, sito di elezione del suo assorbimento intestinale, attraverso una gastrostomia percutanea, tramite un sondino gastro-duodenale.
Buona parte dei problemi correlati alla terapia con la levodopa è dovuta al fatto che l’unica via pratica di somministrazione è quella orale: l’acidità dell’ambiente gastrico e la competizione da parte di alcuni aminoacidi per il trasporto nel torrente circolatorio e attraverso la barriera emato-encefalica ne limitano la biodisponibilità, diminuendo la sua efficacia, che in fase avanzata di malattia dura solo solo poche ore dopo ogni somministrazione.
La nuova formulazione di levodopa/carbidopa consiste in una soluzione, contenuta in una cartuccia da 100 cc, di 2000 mg di l-dopa e 500 mg di carbidopa, in un gel di sodio caramelloso e acqua (Duodopa®, Solvay).
La cartuccia viene inserita sul sistema di infusione (pompa), portatile e maneggevole, che consente di erogare il farmaco in modo continuo e molto fine (2 mg), in modo tale da ottenere la miglior finestra terapeutica per limitare le discinesie ed eliminare i blocchi; è possibile anche somministrare quantità extra di farmaco, qualora fosse necessaria in alcuni momenti della giornata, una quantità maggiore di levodopa rispetto all’infusione costante.
Questo trattamento è indicato per le persone con malattia di Parkinson, complicata da blocchi motori e non motori e movimenti involontari, che non tollerano l’infusione continua con apomorfina sottocute in pompa o che non possono essere sottoposti all’intervento di stimolazione cerebrale profonda.
In anestesia generale, viene eseguita una gastrostomia per cutanea (PEG), cioè un foro nello stomaco, attraverso cui viene inserito un sondino gastro-intestinale, la cui estremità viene sospinta oltre il piloro, nell’intestino tenue, mentre l’altra estremità, esterna, viene collegata alla pompa, che si porta appesa alla cintura. La infusione di levodopa direttamente nel duodeno consente al paziente di mangiare quando e come vuole, poiché non vi è più competizione, a livello dello stomaco, nell’assorbimento e nel trasporto della levodopa da parte degli alimenti; se necessario, una seconda uscita del sondino può essere utilizzata in contemporanea all’infusione di levodopa, se vi sono problemi gravi di deglutizione ed il paziente necessita di una nutrizione enterale.
Anche se i pazienti trattati finora in Europa non sono molto numerosi, i benefici ottenuti sono veramente incoraggianti e aprono prosp principi attivi sono già disponibili in commercio: levodopa/carbidopa (Sinemet®) ed entacapone (Comtan®).
Attualmente la prescrizione di entacapone è a carico del SSN dietro presentazione di piano terapeutico.
Safinamide è un nuovo principio attivo con un esclusivo duplice meccanismo d’azione: inibizione delle MAO-B altamente selettiva e reversibile e modulazione del rilascio eccessivo del glutammato tramite il blocco stato-dipendente dei canali del Sodio-voltaggio dipendenti. Gli studi clinici registrativi hanno dimostrato inequivocabilmente la sua efficacia nel controllare i sintomi motori e le complicanze motorie della Malattia di Parkinson nel breve periodo (6 mesi) mantenendo i benefici anche nel lungo termine (fino a 2 anni). I risultati di uno studio a lungo termine (24 mesi), in doppio cieco, controllato verso placebo, evidenziano che safinamide è efficace sulle fluttuazioni motorie (Tempo ON/OFF) senza aumentare il rischio di sviluppare discinesie invalidanti. Questo dato positivo può essere correlato al suo unico duplice meccanismo d’azione che agisce sulla trasmissione dopaminergica e glutammatergica. Safinamide è un farmaco ben tollerato, con un profilo di sicurezza favorevole ed è facile da usare: monosomministrazione, non necessita di modificare la dose di levodopa, non ha interazioni farmacologiche importanti, non richiede diete particolari grazie alla sua selettività MAO-B vs MAO-A.