Genetica e Staminali

GENETICA E STAMINALI

I PROGRESSI DELLA RICERCA GENETICA NELLA MALATTIA DI PARKINSON

 

Genetica e Staminali

La maggior parte dei medici e degli scienziati sono concordi nel ritenere che l’aver individuato, in alcune famiglie, difetti genetici come causa della malattia di Parkinson costituisca il più importante ed indiscutibile successo della ricerca sulla malattia degli ultimi anni. Grazie alla famiglia di Contursi (dall’omonimo paese della Campania) è stata possibile la mappatura e la successiva identificazione nel 1997 del primo gene responsabile di una forma mendeliana di malattia di Parkinson: il gene dell’alfa-sinucleina. Il secondo risultato scientifico rilevante è che non si ha a che fare con un solo gene. Piuttosto, geni multipli (cioè sono presenti più copie dello stesso gene) possono causare la malattia di Parkinson. Per maggiore precisione, le mutazioni (alterazioni) in cinque geni (a-synuclein, Parkin, DJ-1, PINK1 e LRRK2) sono state chiaramente implicate in alcune forme della malattia di Parkinson. Inoltre, i difetti (mutazioni) in ciascuno di questi geni possono essere localizzati in zone diverse del DNA.

Per le forme di trasmissione recessiva la malattia è presente circa riferisce di avere un altro familiare con la malattia del Parkinson. Ciò significa che il rimanente 80% dei pazienti non ha una forma genetica della malattia e quindi la loro malattia è causata da fattori ambientali?
Sono in corso studi per dare una risposta a queste domande. Addirittura, nel caso dell’ultimo dei cinque geni attualmente conosciuti legati alla malattia di Parkinson, sono state riscontrate mutazioni del gene LRRK2/dardarin, di tipo dominante, in pazienti che non avevano nella loro storia familiare malati di Parkinson. C’è da tenere presente, inoltre, che i difetti genetici con trasmissione recessiva si possono manifestare così raramente nelle famiglie che il soggetto generalmente non rammenta di avere avuto altri congiunti ammalati e ciò fa sì che la malattia si mascheri come “sporadica” o “non familiare”. Questo è particolarmente vero se il gene della malattia manifesta i suoi sintomi in tarda età, come può avvenire per la malattia di Parkinson. Quindi, anche in assenza di una storia familiare positiva di malattia del Parkinson, un difetto genetico può essere ancora responsabile della malattia.

Perchè queste scoperte sono così importanti e perchè è bene continuare questo tipo di ricerca? Noi speriamo di ottenere da questa ricerca due importanti risultati. Primo, la scoperta dei geni ci permette di capire il loro ruolo nel normale funzionamento delle cellule cerebrali e in quale modo la loro mutazione danneggia la cellula nervosa che è alla base della malattia di Parkinson. Di conseguenza, conoscendo i geni, si apre la strada a numerosi filoni di ricerca. La nostra speranza è di ottenere dei risultati in grado di identificare, nel dettaglio, le varie tappe che iniziano dalla mutazione genetica fino a culminare con la malattia. La conoscenza sempre più approfondita delle cause che portano alla perdita delle cellule cerebrali nel Parkinson e in altre malattie simili è di grande importanza per le implicazioni che può avere per lo sviluppo di trattamenti farmacologici più specifici o anche preventivi in grado di bloccare o di rallentare la degenerazione delle cellule nervose.
Ad esempio, l’alfa-sinucleina è una proteina implicata nella normale comunicazione fra le cellule nervose, permettendone un corretto funzionamento.
Ma nel Parkinson la struttura della proteina è alterata e ciò causa un eccesso di alfa-sinucleina nel cervello dei malati parkinsoniani che si accumula in modo abnorme portando la morte dei neuroni dopaminergici. Ricercatori californiani hanno geneticamente modificato dei topi per far loro produrre la proteina alterata con conseguenti fenomeni neurodegenerativi.

Genetica e Staminali

Hanno quindi prodotto un vaccino costituito da alfa-sinucleina umana e da un composto adiuvante, che ne consente il trasporto nel cervello. Lo scopo era quello di generare una reazione immunitaria con produzione di anticorpi contro la proteina patologica. Rispetto al gruppo di topi che avevano ricevuto il solo adiuvante, in molti animali vaccinati si riscontravano elevate quantità di anticorpi, con minore accumulo di aggregati di alfa-sinucleina nelle cellule nervose e con ridotti segni di neurodegenerazione. Si è trattato dunque di una vaccinazione con risultati terapeutici.
Non è ancora noto se analoghi risultati potranno essere ottenuti anche nell’uomo; comunque è un filone di ricerca nuovo, che va certamente esplorato.
Questa terapia a bersaglio mirato, basata su principi scientifici razionali, potrebbe quindi risultare molto vantaggiosa.
Nel Parkinson, i geni coinvolti controllano lo stesso gruppo di cellule cerebrali. Come noto, solamente i neuroni di una piccola zona del sistema nervoso centrale chiamata Sostanza Nera sono danneggiati dalla malattia. Se fosse possibile controllare la funzione dei geni bersaglio della Sostanza Nera implicati nella malattia di Parkinson, si potrebbe aumentare la sopravvivenza delle cellule dopaminergiche e quindi bloccare o quantomeno rallentare la malattia.
In futuro, se si potesse individuare in un soggetto il difetto molecolare, il trattamento della malattia potrebbe
teoricamente essere personalizzato anche senza conoscere la causa di fondo della malattia.
Chiaramente, non siamo ancora a questa fase e oggi le decisioni terapeutiche non sono assolutamente influenzate dalla conoscenza della condizione genetica dell’individuo.
Il secondo obiettivo della ricerca genetica è sottoporre i pazienti a test genetici per arrivare a diagnosi precoci e a diagnosi differenziali, ma anche a diagnosi a scopo predittivo.
Attualmente sono disponibili in laboratorio test per due dei geni conosciuti, Parkin e PINK1. Purtroppo, la molteplicità dei geni associati alla malattia, il grande numero di mutazioni in un gene che possono collegarsi alla malattia e la rarità delle mutazioni genetiche (tranne che per il gene Parkin le cui mutazioni sono responsabili di quasi la metà dei casi familiari e di circa il 10-15% dei casi sporadici di malattia di Parkinson precoce), spesso fanno sì che l’interpretazione dei dati genetici sia difficile, se non impossibile.
Ad esempio, un test negativo di uno ma persino di due geni non esclude la diagnosi di morbo di Parkinson né il rischio per il soggetto di sviluppare in futuro la malattia.
Nel caso del test per il gene Parkin l’aver trovato in taluni casi di malattia di Parkinson una mutazione in una delle due copie del gene rende l’interpretazione difficile. Trattandosi, infatti, di un gene a trasmissione recessiva, per sviluppare la malattia è necessario essere portatori di due mutazioni nelle due copie del gene.
Attualmente il test genetico può essere utile negli studi in cui una famiglia è osservata come gruppo. Il gene responsabile della malattia viene individuato in un laboratorio di ricerca ed, allora, si possono effettuare meglio delle previsioni nei riguardi dei diversi membri della famiglia. Naturalmente, una tale situazione dovrebbe anche valutare seriamente aspetti etici, la disponibilità della persona di conoscere (o meno) i risultati del test genetico, in che modo il soggetto dovrebbe utilizzare queste informazioni.
Solamente quando questi aspetti e la complessità del test genetico per la malattia di Parkinson saranno elaborati attraverso linee guida da parte di competenti società scientifiche e professionali, si potrà iniziare a considerare il test genetico presintomatico, cioè test che individuano chi potrebbe essere a rischio di sviluppare la malattia.
Il test presintomatico sarebbe utile per iniziare terapie preventive se e quando tali terapie fossero disponibili.
Ma, fino a quando indicazioni prognostiche o trattamenti specifici non saranno individuati per i pazienti portatori di specifiche mutazioni, il test genetico non potrà recare sostanziali conseguenze pratiche per i pazienti, almeno non sul piano della condotta terapeutica.

APDA – New York

TEST PREDITTIVI
Risponde il  Prof. Alberto Albanese – Istituto Neurologico Carlo Besta – Milano

D. Quali possono essere le implicazioni etiche e psicologiche legate a test predittivi riguardanti la diagnosi di malattia di Parkinson?

E’ ovvio che ci sono delle implicazioni di carattere psicologico molto importanti e chiaramente venire a sapere di essere
un probabile portatore o comunque un soggetto che svilupperà la malattia può essere estremamente coinvolgente. Credo quindi che questo tipo di considerazioni dovranno essere tenute ben presenti. Siamo però in una fase ancora molto preliminare. In realtà non sappiamo ancora se abbiamo dei test predittivi. E’ giusto ricercare possibili test che siano predittivi (olfatto, stipsi ecc…) perché un domani la ricerca farmacologica potrebbe metterci a disposizione delle terapie neuroprotettive. E’ molto diverso, infatti, dire ad un paziente “Guardi, lei ha un’alta probabilità di sviluppare la malattia di Parkinson”, senza potergli offrire una prospettiva terapeutica, rispetto al potergli dire “Lei è un soggetto a rischio, con un’alta probabilità di sviluppare la malattia, le possiamo pertanto prospettare un intervento terapeutico che la proteggerà da questo rischio”.
In questo momento siamo ancora agli albori, poiché non abbiamo alcuna certezza della reale sicurezza dei test predittivi e purtroppo non abbiamo nessuna evidenza scientifica che la neuroprotezione sia realmente efficace. Direi quindi che è un argomento su cui è giusto effettuare delle ricerche, ma siamo ancora in una fase molto preliminare. Nel momento in cui ci fossero a disposizione test sicuri andrebbe allora discusso come utilizzarli. E in questo caso, andrà naturalmente posta estrema cautela alla loro effettuazione se non ci fossero contemporaneamente a disposizione delle prospettive terapeutiche per il paziente.

D. Se fosse disponibile un test predittivo, secondo lei si tratterebbe di predire un’”alta probabilità di sviluppare la malattia di Parkinson” oppure la “certezza” di ammalarsi?

Non credo che si arrivi ad un test di certezza perché sicuramente la malattia di Parkinson è una malattia polifattoriale.
Per quello che attualmente si conosce, è probabile che dipenda dall’interazione di fattori di predisposizione genetica con fattori causali, ambientali, tossici, endogeni ed esogeni.
Questa polifattorialità implica che non si ha mai la certezza dello sviluppo della malattia; non siamo di fronte ad una malattia ereditaria in termini autosomici dominanti, e difficilmente si svilupperà un unico test predittivo. Probabilmente si tratterà di un’analisi polifattoriale nell’ambito della quale la positività a più fattori di rischio significa aumentare la probabilità di sviluppare la malattia. Quasi sicuramente non si tratterà di una certezza.

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LA GENETICA NEL PARKINSON

Molti ricercatori ritengono che la malattia di Parkinson sia il risultato della interazione fra numerosi fattori ambientali ai quali il paziente è esposto durante la propria vita (sostanze tossiche, farmaci, stili di vita, ecc.) e una predisposizione genetica ereditata all’interno della famiglia.
E’ un po’ quello che accade per il diabete di tipo 2, l’asma, l’obesità e le coronaropatie.
Nei casi di Parkinson, il peso delle cause ambientali è più importante della predisposizione genetica.
Il rischio che si presenti la malattia nei familiari di primo grado dei pazienti parkinsoniani (figli, genitori, fratelli e sorelle) è di circa il 3,5% ed è maggiore del rischio casuale della popolazione generale di ammalarsi di Parkinson sopra i 65 anni che è dell’uno per cento.
Ciò potrebbe indicare che esiste una predisposizione familiare alle vere cause che provocano la malattia (ad esempio, cause tossiche).
Ciò che si eredita da un familiare malato di Parkinson è quindi la predisposizione a sviluppare la malattia.
Ci sono però, ma sono rari, casi di famiglie in cui la malattia ha un’origine genetica ed è quindi legata alla mutazione di un gene.
Questo vuol dire che la malattia si può sviluppare senza bisogno di una causa ambientale.

Genetica e Staminali

Il discorso sulla genetica è molto complesso e riguarda le malattie a trasmissione recessiva e le malattie a trasmissione dominante. In parole semplici: il nostro patrimonio genetico è costituito da due metà uguali.
Di ogni gene abbiamo due copie: una la riceviamo dal padre e una dalla madre.
La malattia si trasmette nelle persone che possiedono – è l’ipotesi recessiva – entrambe le copie del gene con una mutazione.
Invece nelle malattie a trasmissione dominante basta avere solo una copia del gene con la mutazione per manifestare la malattia.
Sono state identificate negli ultimi anni forme di Parkinson che riconoscono una ben precisa origine genetica.
Ne ricordiamo soltanto due, le più importanti:
1) Park 1 che è causata da una alterazione del gene della alfa- sinuclein. E’ questa una forma, assai rara, ad ereditarietà autosomica dominante (i malati appartengono a diverse generazioni o alla stessa generazione), che si presenta con un quadro tipico parkinsoniano, anche se l’età di esordio è di poco inferiore a quella della malattia di Parkinson semplice e vi può essere una modesta compromissione cognitiva.
2) Park 2 è determinata da una alterazione del gene della Parkina. Questa forma ha una ereditarietà autosomica recessiva (i membri colpiti appartengono alla stessa generazione, fratelli e sorelle) e possiede alcune peculiarità: esordio in età precoce (da 20 a 40 anni), progressione di malattia assai lenta con decorso benigno, ed ottima risposta alle terapie convenzionali della malattia. Un calcolo approssimativo indica una frequenza del 40% di questo gene nelle persone che presentano la malattia prima dei 30 anni.

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RICERCA ITALIANA: OLTRE I GENI, LA CAUSA E’ L’AMBIENTE

“Abbiamo scoperto una nuova connessione tra la genetica e i fattori di rischio ambientale alla base del morbo di Parkinson”.
La voce tradisce emozione, perché Alessandra Chesi, senese, un dottorato alla Sissa di Trieste e ora ricercatrice all’Università della Pennsylvania, a Philadelphia, ha gettato nuova luce sull’origine di una malattia neurodegenerativa che colpisce milioni di persone, 220 mila solo in Italia, e di cui ancora non si conoscono le cause.
Lei, con il biologo molecolare Aaron Gitler, ha studiato un gene solo di recente associato al morbo, il «Park 9», che è mutato in una forma ereditaria della malattia.
Che cosa significa?
«Come è stato pubblicato online su “Nature Genetics”, abbiamo studiato la funzione del gene corrispettivo al “Park 9” nelle cellule di lievito per capire l’interazione tra le proteine codificate dal gene e l’ambiente esterno».
E che cosa avete ottenuto?
«Se si inserisce una cellula dotata del gene in un ambiente con manganese, questa sopravvive, ma, se lo cancelliamo dal codice del lievito, la cellula muore. Significa che il gene protegge dalla tossicità del manganese».
Perché è tanto importante?
«Si sa da tempo che proprio il manganese può causare problemi simili al Parkinson, una malattia chiamata “manganismo”, che colpisce soprattutto minatori, saldatori e lavoratori delle acciaierie.
C’è quindi una scuola di pensiero che ritiene l’inquinamento – da pesticidi, per esempio – una causa fondamentale per l’insorgenza di casi sporadici di Parkinson, vale a dire quelli senza una riconoscibile storia familiare.
Per altri ricercatori, invece, è più importante la componente genetica.
Il nostro studio è tra le prime conferme che le cause genetiche e i fattori ambientali sono collegati e che entrambi contribuiscono alla malattia: se un individuo ha il gene “Park 9” mutato, è più suscettibile all’evoluzione del Parkinson se vive in un ambiente ad alta concentrazione di manganese».
Perché avete condotto la ricerca con il lievito: qual è la rilevanza per l’uomo?
«Nel lievito, quello per esempio che fa lievitare il pane, molti processi cellulari sono gli stessi che nell’uomo. Si tratta, perciò, di un modello che offre il vantaggio di analisi rapide».
Quali sono le possibilità di ideare nuove cure?
«Adesso dovremo verificare la funzione di “Park 9” in modo approfondito negli animali e nell’uomo. Se i risultati saranno confermati, credo che sarà possibile trattare l’origine del morbo e non solo i sintomi, come si fa ora. Si gettano le premesse per intervenire, in futuro, con la terapia genica».
Come mai, a quasi 200 anni dalla scoperta del primo caso, il Parkinson è ancora una malattia incurabile?
«Proprio perché non c’è, come in altre malattie, una sola causa o un unico gene implicato. È una malattia multifattoriale. Solo ora, evidenziando l’interazione genetica-ambiente, si comincia a trovare il filo in una matassa molto imbrogliata».

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L’IMPORTANZA DELLA DIAGNOSI PRECOCE NELLA MALATTIA DI PARKINSON

Prof. Tommaso Caraceni
*Primario emerito di Neurologia – Istituto Nazionale
Neurologico “Carlo Besta” di Milano

Genetica e Staminali

L’argomento che sto per affrontare è molto arduo: “Come predire la comparsa della malattia di Parkinson quando i sintomi della malattia non sono ancora presenti?”.
E’ possibile svolgere questo compito divinatorio?
La capacità di predire è una capacità che tutti noi ci auguriamo di poter possedere, è un desiderio comune all’essere umano.
In tutti i tempi e in tutte le culture troviamo sempre la figura dell’indovino.
Vediamo, in concreto, attraverso quali elementi è possibile “indovinare” se una persona svilupperà in un futuro la malattia di Parkinson.
In questo senso, possiamo utilizzare vari metodi: possiamo pensare di studiare l’epidemiologia che precede la malattia di Parkinson, cioè il carattere pre-morboso del malato parkinsoniano, i disturbi psichici antecedenti la malattia oppure controllare se prima della comparsa della malattia il soggetto presentava aspetti clinici peculiari del malato parkinsoniano.
In terzo luogo, e forse fra tutte è la metodologia più importante e più sicura, si può ricorrere all’utilizzo di strumenti di indagine diagnostica mediante neuro-immagini: PET e sonografia transcranica.

STUDI EPIDEMIOLOGICI

Dagli studi epidemiologici è stato possibile comprendere il carattere pre-morboso del malato parkinsoniano: questi pazienti sono per lo più soggetti attenti, scrupolosi, cauti, coscienziosi, poco flessibili, hanno un umore orientato alla depressione, sono degli “anedonici”.
Con il termine “anedonia” si vuole indicare soggetti che non ricercano i comuni piaceri della vita o di ridotta ricerca della novità. Questo dato epidemiologico deriva dal raffronto di popolazioni diverse: di popolazioni che presentano la malattia di Parkinson rispetto a popolazioni che non hanno manifestato il Parkinson.
Dai dati statistici risulta, quindi, una maggiore frequenza della comparsa della malattia nei soggetti che hanno queste specifiche caratteristiche caratteriali.
Non si può dire, tuttavia, con certezza che chi ha un carattere di tipo “anedonico” manifesterà in futuro la malattia di Parkinson. Troviamo anche malati parkinsoniani che amano i cosiddetti piaceri della vita: fumano, bevono… Studi scientifici hanno rilevato che i soggetti parkinsoniani bevono caffè o fumano in percentuale assai inferiore ai valori normali.
Ciò sembra collegarsi a quest’assenza del desiderio della novità e del piacere. Il centro del piacere è regolato da un meccanismo dopaminergico. La carenza della dopamina induce alla malattia di Parkinson. Il sistema del piacere è regolato dal sistema mesolimbico che riceve afferente dopaminergiche. Il sistema mesolimbico è un circuito che collega la struttura della sostanza nera ad una altra struttura cerebrale il nucleo accumbens. La trasmissione dei segnali tra queste strutture, mediante il neurotrasmettitore dopamina, avviene per le vie dopaminergiche che si connettono con il sistema mesolimbico.
Si può, quindi, effettivamente pensare che una carenza di dopamina determini questa caratteristica pre-morbosa del carattere del malato per cui il soggetto non fuma, non beve caffè… Non è che il fumo sia protettore nei confronti della malattia di Parkinson: il malato non fuma perché ha questo tipo di carattere “anedonico” e ciò dà questa falsa idea che il fumo sia protettore nei confronti della malattia.

LA DEPRESSIONE

A questo punto dobbiamo passare ad una altra considerazione.
E’ stato visto che la depressione è un elemento frequente nella malattia di Parkinson.
Gli studi epidemiologici hanno evidenziato che la depressione è presente in almeno il 40% dei soggetti parkinsoniani.
Si è visto anche che nel 30% dei casi la depressione precede la comparsa della malattia di Parkinson.
La depressione può quindi essere anticipatoria, già parecchi anni prima, della malattia di Parkinson.
La depressione costituisce pertanto un altro elemento che potrebbe far esprimere un giudizio predittivo per la comparsa della malattia di Parkinson.
Anche qui, però, siamo nella stessa condizione di prima.
Si tratta di rilevazioni statistiche, non sono quindi dati certi, specifici.
Nella realtà, infatti, tanti soggetti depressi non diventeranno mai parkinsoniani.
Non possiamo quindi affermare che chi è depresso svilupperà in futuro la malattia di Parkinson.
Anche per queste manifestazioni di tipo ansioso e/o depressivo si ritiene che la causa sia la carenza di dopamina nella struttura mesolimbica che regola il tono dell’umore.

E’ UN CONTINUUM…

Se si considera il carattere premorboso del malato parkinsoniano, i disturbi psichici quali depressione e/o stato ansioso e la comparsa poi dei disturbi motori della malattia di Parkinson, si può asserire che esiste un “continuum” di un unico processo patologico che colpisce il sistema dopaminergico in senso lato. L’alterazione primaria della ricerca del piacere, per cui i parkinsoniani sono “anedonici”, è legata ad una alterazione dopaminergici che colpisce appunto la via meso-accumbens.
In un secondo momento compare il disturbo depressivo, il disturbo del tono dell’umore che rende i malati ansiosi e depressi.
Il sistema dopaminergico è alterato e sappiamo che il sistema dopaminergici sostiene il tono dell’umore, attraverso le connessioni con il sistema mesolimbico.
Infine, ad essere colpita è la struttura che regola il movimento.
Compaiono le manifestazioni motorie tipiche della malattia, quali il tremore ed il rallentamento motorio, provocate dalla perdita di dopamina nel sistema meso-striatale.

ALTRI ASPETTI CLINICI

E’ possibile avere dei segnali specifici predittivi della comparsa della malattia di Parkinson, dall’osservazione visiva del malato oppure dalla sua storia sintomatica?
Al riguardo, sono stati effettuati degli studi. Si può pensare, ad esempio, che una estrema rarità dell’ammiccamento possa essere una manifestazione premonitoria della comparsa della malattia di Parkinson.
Durante il cammino, le braccia oscillano normalmente, nell’asincinesia deambulatoria questo movimento è ridotto solamente da un lato.
Un’asincinesia deambulatoria dell’arto superiore potrebbe essere anch’esso un altro segnale premonitore.
Sono stati fatti studi sulla stipsi.
Si è visto, attraverso indagini retrospettive, che  i parkinsoniani, molto più spesso di altri soggetti, presentano una lunga storia di stipsi.
Così pure è stato visto che i parkinsoniani perdono l’olfatto (anosmia) prima della comparsa dei sintomi parkinsoniani.
Ma questa perdita dell’olfatto non è specifica della malattia di Parkinson, è presente, ad esempio, anche nella malattia di Alzheimer.
Sono tutti elementi utili, interessanti, di ricerca, di studio ma non ci permettono, tuttavia, di esprimere un parere predittivo, di fare cioè gli indovini.  
A questo proposito ricordo due casi che sono venuti alla mia osservazione.
Un ingegnere di 45 anni che presentava da circa tre anni rigidità e tremore all’arto superiore destro, senza asincinesia deambulatoria.
Parlando, indagando è emerso che fin dall’età di 18 anni e per tutto il periodo universitario, in particolare, nelle situazioni di stress come quella di un esame, gli compariva un tremore all’arto superiore destro, senza peraltro mostrare nessun’altra manifestazione della malattia.
Il secondo paziente, anche questo di sesso maschile, presentava all’età di cinquanta anni un modesto quadro parkinsoniano, prevalente agli arti di sinistra, con una buona risposta alla levodopa.
Fin dall’età di venti anni si era accorto di un impaccio motorio all’arto inferiore sinistro che però non gli aveva impedito di condurre una vita normale ed anche di praticare alcune attività sportive: andare a sciare, giocare a tennis.
Era stato visitato in passato da alcuni specialisti, ma non era emersa alcuna patologia.
Guarda caso, a distanza di tantissimi anni, manifestava la malattia di Parkinson, con esordio al lato inferiore sinistro.
E’ possibile che questi sintomi che precedono anche di molti anni l’esordio della malattia ne rappresentino una spia?
E’ possibile, certamente, però non possiamo esserne certi.
Si potrebbe dire che il sistema nigrostriatale di questi due malati era già in età giovanile in una situazione di fragilità o di sofferenza preclinica e che tale sia rimasta per molti anni.
Questi esempi sono interessanti, dimostrano che la fase che precede le manifestazioni sintomatiche tipiche della malattia di Parkinson può durare anche molti anni ma questi segni precoci non sono utilizzabili come mezzo per esprimere una diagnosi predittiva.
Un altro fattore di rischio serio per la comparsa della malattia è l’età: “più sono anziano, più probabilità avrò di sviluppare la malattia di Parkinson”.
Ma è pur sempre un’ipotesi.

NEUROIMMAGINI

Di maggiore valore sono gli studi mediante le neuroimmagini: PET e sonografia transcranica.
La PET (tomografia a emissione di positroni) è una metodica di medicina nucleare che viene utilizzata per rilevare la radioattività che noi andiamo a dare in determinate strutture cerebrali, somministrando nel malato per via venosa una sostanza radioattiva o tracciante.
La distribuzione nell’organismo della sostanza radioattiva viene individuata dalle radiazioni corpuscolate che questa emette, i positroni.
In uno studio che è stato effettuato recentemente, si è visto che somministrando fluorodopa, un marcante radioattivo, questo dopo essere stato catturato dalle cellule nervose implicate nel trasporto della dopamina, va a concentrarsi nei terminali dopaminergici dello striato.
Mediante la PET è possibile visualizzare direttamente nello striato, la struttura cerebrale che si vuole studiare, la sostanza radioattiva accumulata nelle terminazioni sinaptiche dei neuroni nigrostriatali.
Lo studio ha effettuato due indagini con la PET a distanza di tre anni l’una dall’altra; dai risultati della prima indagine emergeva una riduzione dei terminali dopaminergici dello striato del 75% rispetto ai valori normali, mentre a distanza di tre anni, tale riduzione era maggiore.
La riduzione della captazione del tracciante radioattivo da parte delle cellule nervose trasportatrici di dopamina, sta a dimostrare che si è verificata una perdita del numero delle cellule dopaminergiche della sostanza nera.
Con l’utilizzo dei dati rilevati mediante la PET, è possibile tracciare graficamente una retta che ci permette di verificare l’andamento nel tempo della malattia.
Partendo dal presupposto che la perdita dei terminali dopaminergici a livello striatale sia perfettamente uguale e costante negli anni, siamo in grado di disegnare una linea retta andando indietro di diversi anni.
La PET consente quindi di stabilire cinque o sei anni prima dell’esordio dei sintomi principali della malattia se vi è una perdita neuronale, cioè se la malattia esisteva già e di valutare nel tempo il grado di progressione della malattia.
I limiti della PET consistono nei costi elevati della strumentazione, nella sua disponibilità solamente in pochi Centri universitari e nella impossibilità ad estendere questo metodo di indagine a “screening” di massa.
Un’altra metodica interessante è la sonografia transcranica.
La sonografia transcranica utilizza il metodo degli ultrasuoni, genera quindi degli echi che sono particolarmente elevati in presenza di un aumento di cellularità (come per un tumore) oppure di depositi paramagnetici.
Questa metodica è molto meno costosa della PET, ma ancora poco utilizzata per studiare la malattia di Parkinson.
Si è visto che l’eco a livello della sostanza nera dei soggetti parkinsoniani è quasi sempre maggiore, rispetto alle persone sane.
In proposito, è stato fatto un interessante studio che ha coinvolto 330 soggetti normali, con l’obiettivo di controllare lo stato della sostanza nera.
Nell’8,6% di soggetti normali è stata rilevata una alterazione di tipo parkinsoniano della sostanza nera. Questo dato non è casuale.
Dagli esami autoptici su soggetti morti per qualunque causa, che non presentavano la malattia di Parkinson, si è riscontrato nell’8% circa dei casi, quindi con una percentuale molto simile a quella rilevata con la sonografia transcranica, i corpi di Lewy che sono, come dire, il marchio identificativo della malattia di Parkinson.
Una parte dei soggetti studiati con la sonografia transcranica sono stati poi studiati anche con la PET, utilizzando come tracciante la fluorodopa, la quale risultava significativamente ridotta a livello dello striato.
Questa osservazione conferma che le alterazioni osservabili con la sonografia trascranica si correlano perfettamente con quelle rilevate dalla PET.
Questo è un dato molto interessante che apre nuove prospettive e che necessita di ulteriori conferme.
La PET, quale metodica di indagine attraverso le neuroimmagini, potrebbe essere riservata in situazioni particolari (difficoltà di diagnosi o casi di malattia di Parkinson familiare) oppure per motivi scientifici.
La PET con fluorodopa, così come la sonografia transcranica consentono di riconoscere soggetti con parkinsonismo preclinico, in famiglie con malattia di Parkinson familiare, derivante da mutazioni del gene alfasinucleina oppure da mutazioni, peraltro rare, del gene parkina.
Un esempio. La forma genetica della malattia di Parkinson legata ad una mutazione del gene parkina colpisce più o meno la stessa generazione.
E’ una forma di malattia che compare precocemente ed ha un decorso particolare.
Se in una famiglia si ha un soggetto con un esordio di malattia di Parkinson particolarmente precoce, ciò potrebbe far sospettare che possa esistere una forma di trasmissione della malattia legata ad una alterazione del gene parkina.
I fratelli o le sorelle che non presentano i sintomi della malattia, ma che sono soggetti a rischio, potrebbero effettivamente essere studiati con la PET oppure con la sonografia transcranica.
In una ampia classifica lo studio PET con fluorodopa ha rilevato in oltre un terzo dei familiari asintomatici una disfunzione dopaminergici nigrostriatale in fase preclinica. Tale dato dimostra l’alto valore predittivo della PET con fluorodopa.

IL FUTURO

Perché vogliamo predire il futuro?
L’abbiamo detto prima, perché è un desiderio comune.
Ma da un punto di vista pratico, al malato, cosa serve?
Ad una persona che presenta fattori di rischio per lo sviluppo della malattia, ad una persona che ha un malato in famiglia, quale senso ha predire il futuro? Qual è l’utilità?
L’utilità potrebbe esserci se avessimo terapie preventive efficaci, se sapessimo come dobbiamo comportarci per impedire la comparsa della malattia. Allo stato attuale delle conoscenze non esistono ancora cure in grado di fermare o di rallentare il decorso della malattia di Parkinson. Ritengo che, per alcune persone, sapere quale sarà il loro futuro potrebbe essere un vantaggio, ma per altre potrebbe essere negativo.
Credo, quindi, che allo stato attuale delle nostre conoscenze, sia opportuno “ignorare” sperando di avere un ottimo futuro.

SI PUO’ PREDIRE LA MALATTIA DI PARKINSON?
DAI POSSIBILI INDIZI NESSUNA CERTEZZA

Che cosa dobbiamo fare quando la tecnologia ci mette a disposizione delle risposte?

Il fatto di conoscere che abbiamo una predisposizione dal punto di vista organico ad una malattia non sempre significa che svilupperemo in futuro questa malattia.
Ricordo una decina di anni fa che all’American Academy of Neurology era stato presentato un caso patologico di malattia di Huntington che presentava l’atrofia del nucleo caudato.
Il paziente, però, era morto di tutt’altro, non aveva avuto i sintomi della malattia di Huntington. Sappiamo, inoltre, di soggetti, che pur presentando ad un riscontro anatomo-patologico post-mortem i corpi di Lewy, corpuscoli caratteristici del morbo di Parkinson, non erano affetti in vita da questa malattia.
Non parliamo poi della malattia di Alzheimer.
Nel cervello di molti soggetti sono state riscontrate, attraverso l’autopsia, un numero di placche abbastanza consistente negli spazi tra i neuroni da presupporre una diagnosi di malattia di Alzheimer, mentre, in realtà, questi soggetti sono morti per cause diverse.
Per sviluppare la malattia occorrono altre concause.
Il meccanismo della patogenesi, attraverso il quale le cause della malattia agiscono per scatenarne l’evoluzione è differente dall’eziologia, che studia le cause della malattia.
L’eziologia può essere presente, il fenotipo cioè la manifestazione fisica della malattia, può non essere presente.
In questo caso è meglio “ignorare”.
Il problema sollevato è enorme, poiché la tecnologia, per quanto sia avanzata, dà delle risposte ma non delle certezze.

Prof. Ruggero Fariello
Newron Pharmaceuticals SpA, Gerenzano (Varese)

I COMMENTI DEGLI SPECIALISTI

Sono d’accordo con tutti, a mio avviso però il messaggio importante è questo: si deve credere nel progresso, non si deve fare oscurantismo.
Occorre credere nel progresso e nelle capacità di giudizio e di competenza di chi ci sta vicino perché, senza di queste, il progresso da solo induce in errore.
Prof. Tommaso Caraceni* -Istituto Nazionale Neurologico “Carlo Besta” di Milano

I due casi che il Prof. Caraceni ha presentato: sia quello del paziente con comparsa di tremore all’arto superiore destro durante situazioni emotive come gli esami universitari, sia l’altro di un paziente con impaccio motorio fin dall’età giovanile e che poi è andato avanti negli anni fino alla successiva comparsa della malattia, non sono sufficienti per affermare che tutti coloro che oggi presentano tremore emotivo, anche asimmetrico, svilupperanno domani la malattia di Parkinson oppure che i soggetti con un impaccio motorio manifesteranno in futuro la malattia.
Queste problematiche sono comuni in tutte le patologie, soprattutto nelle malattie neurologiche.
E’ vero che le neuro-immagini aiutano moltissimo, ma possono anche individuare delle situazioni di falsi positivi creando dei grossi problemi.
Oggi abbiamo una tecnologia che è sviluppata al massimo e si sta sviluppando ulteriormente.
Utilizzata come strumento diagnostico è di notevole supporto.
Il suo impiego però può essere anche rischioso, se si limita all’applicazione di tante nozioni che perdono di vista l’insieme dell’individuo.

Prof. Domenico Mancia Istituto di Neurologia – Università degli Studi di Parma

NUOVA TERAPIA GENETICA CONTRO IL PARKINSON

La prima parte della sperimentazione clinica ha dimostrato sicurezza e decisi miglioramenti dei pazienti

Si è conclusa nel modo migliore la prima tappa dell’iter che potrebbe portare a una terapia efficace contro il morbo Parkinson.
La prima fase della sperimentazione umana di una terapia genetica ha dato risultati incoraggianti.
I ricercatori del NewYork-Presbyterian Hospital e del Weill Cornell Medical Center hanno riscontrato in 11 uomini e in una donna che il trattamento è sicuro e migliora le capacità motorie compromesse a causa della neurodegenerazione cerebrale del Parkinson.
La terapia genetica utilizzata consiste nell’inserimento nel cervello di un virus inattivato in grado di trasportare un gene importante per i neuroni.
La somministrazione è avvenuta tramite un catetere in corrispondenza degli elettrodi DBS.
“I virus esistono in natura principalmente per trasferire i loro geni nelle cellule ospiti”, ha spiegato
Michael Kaplitt, il primo chirurgo al mondo a eseguire un intervento di chirurgia genetica contro il Parkinson. “Pertanto, abbiamo modificato un virus in modo che trasportasse l’unico gene che volevamo fosse consegnato nel sito cerebrale da curare”.
Il gene in questione si chiama Gad (acido glutamico-decarbossilasi).
“Questo gene produce un neurotrasmettitore, chiamato Gaba, che aiuta i neuroni a riattivarsi”, ha aggiunto il medico. “Nei pazienti con Parkinson, oltre alla dopamina, si riduce anche l’attività dei Gaba e questo provoca disfunzioni nel circuito cerebrale che presiede alla coordinazione motoria”.
L’iniezione della terapia genetica per la introduzione del gene nel nucleo subtalamico è stata effettuata su 12 portatori di DBS e aveva l’obiettivo di valutare la sicurezza della tecnica, ma ha anche valutato la sua efficacia.
La terapia è stata somministrata da un lato solo del nucleo subtalamico.
Già dopo tre mesi, la funzione motoria dei pazienti è risultata migliorata del 25-30 per cento e i miglioramenti sono risultati evidenti anche dopo un anno.
In alcuni di loro, i progressi sono stati impressionanti, tra il 40 e il 65 per cento.
Anche la scansione cerebrale con Pet ha riscontrato attività cerebrale normale nei punti in cui è stato effettuato il trattamento.
La prossima sperimentazione verrà effettuata su un numero maggiore di pazienti.

The Lancet

UNA CAUSA GENETICA DEL MORBO DI PARKINSON
ANCHE PER IL PARKINSON SPORADICO, NON FAMILIARE

La mutazione del gene LRRK2 è responsabile del cinque per cento dei casi ereditari e  di circa il due per cento dei casi non ereditari.

Uno studio pubblicato  sul  numero  del 29 gennaio di “The Lancet” suggerisce che una mutazione in un gene di  recente  scoperta  costituisca  la più diffusa causa genetica finora identificata della malattia di Parkinson.
La scoperta, effettuata da un team internazionale di ricercatori, fornisce nuove prove della possibile origine genetica di alcuni casi della malattia.
Il morbo di  Parkinson  è un  disturbo  neurologico progressivo  causato  dalla  degenerazione dei neuroni nella parte del  cervello  che  controlla i movimenti.
Da tempo gli scienziati sospettano che la  genetica  abbia un ruolo nello sviluppo della malattia.
Ora  i ricercatori hanno scoperto che una mutazione nel gene  LRRK2  sembra  verificarsi in almeno una persona su 60 fra i pazienti  con  la  malattia.
Nel complesso, la mutazione potrebbe essere  responsabile  fino al cinque per cento dei casi ereditari, e  di circa il due per cento dei casi non ereditari.
“Fra le forme di  Parkinson  che  hanno  un’origine  genetica, – commenta Andrei Singleton  del  National Institute on Aging degli Stati Uniti, uno degli  autori  –  questa mutazione provoca più  casi di ogni altra scoperta  fino  ad  oggi. Sapere che questa mutazione è importante non  soltanto  nelle  forme  familiari del  morbo, ma anche nella malattia  sporadica,  potrebbe  condurci  verso  tecniche  per una diagnosi  anticipata.  Ulteriori studi del funzionamento di questo gene,  inoltre,  potrebbero  aiutare gli scienziati a identificare nuove  cure”.
Lo  studio  è  stato condotto da William C. Nichols del  Children’s  Hospital Medical Center di Cincinnati ed è stato finanziato  dal  National  Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINDS) degli Stati Uniti.

FAMILIARITA’ E GENETICA NELLA MALATTIA DI PARKINSON

Dr. EDITO FABRIZIO – DR. VINCENZO BONIFATI
Centro per la malattia di Parkinson e le altre malattie extrapiramidali. Responsabile Prof. G.Meco
Dipartimento di Scienze Neurologiche- Università “La Sapienza” di Roma

PARKINSONISMI MONOGENICI

“Nelle sindromi di Parkinson monogeniche la malattia può essere ricondotta di volta in volta alla mutazione in un determinato unico gene.”

La malattia di Parkinson è diffusa in tutto il mondo ed è in costante incremento.
Nei paesi occidentali, considerati nel loro complesso, i casi di morbo di Parkinson sono circa 200 per 100.000 abitanti. E’ quindi una malattia che interessa all’incirca il due per mille della popolazione generale. Questi dati dimostrano come la malattia di Parkinson necessiti di un notevole contributo scientifico per chiarirne appieno l’eziologia e per impostare un intervento terapeutico il più possibile mirato.
Lo stato attuale delle conoscenze indirizza verso una genesi multifattoriale della malattia in cui hanno importanza sia i fattori di tipo genetico, sia i fattori di tipo ambientale. In realtà, una percentuale di contributo genetico può esserci in tutte le forme di morbo di Parkinson, però, le forme aventi un’origine esclusivamente genetica, intesa questa in senso mendeliano, monogenico, sono molto circoscritte, riguardano una piccola percentuale di casi così come le forme di origine esclusivamente ambientale.
In realtà, nella maggiore parte dei casi, allo sviluppo della malattia di Parkinson ha contribuito l’intervento sia di fattori genetici, sia ambientali.
Al momento, le forme individuate di morbo di Parkinson con una trasmissione di tipo mendeliano sono otto. Alcune forme di malattia sono di tipo autosomico dominante e alcune di tipo autosomico recessivo. In alcuni casi, come nel PARK 1 e nel PARK 2, sono stati identificati anche i prodotti genetici per esempio alpha-Synucleina e parkina. Ciò ha portato ad una maggiore comprensione anche del meccanismo patogenetico della malattia di Parkinson.
C’è, tuttavia, ancora molto lavoro da fare. Sono state individuate, per esempio, in associazione a rarissime sindromi di Parkinson con eredità di tipo autosomico dominante, alterazioni in altri loci cromosomici (PARK 3, PARK 5) ma i geni responsabili della mutazione genetica non sono stati fino ad ora identificati e, quindi, rimane sconosciuto il prodotto genetico.
Queste forme di trasmissione ereditarie della malattia di tipo monogenico riguardano una piccola percentuale di casi della malattia di Parkinson. Ha, comunque, una notevole importanza continuare questo tipo di studi per arrivare proprio ad una nuova classificazione della malattia.
Quello che emerge al momento dalla genetica è che ci potrebbero essere due sottogruppi di malattia: uno con caratteristiche di maggiore benignità e con età di esordio più precoce ed invece un’altra forma con età di esordio più tardiva.

FAMILIARITA’

Di familiarità, in generale, nella malattia di Parkinson se ne parla da circa un secolo. Già dai primi studi nel 1949 era stato osservato che esisteva una certa incidenza di familiarità nei malati parkinsoniani, intorno al 41%, anche se, in seguito, questi studi sono stati criticati da un punto di vista metodologico. Si è arrivati, tuttavia, anche con altri studi effettuati negli anni ’70 e negli anni ’80, a definire un 20-30% di ricorrenza familiare della malattia di Parkinson nella stessa famiglia. La familiarità non e’ intesa necessariamente come ereditarietà ma  come aggregazione particolare di casi in una determinata famiglia, che può dipendere sia da cause di tipo ereditario, trasmissibili, ma anche da fattori ambientali.
Non necessariamente familiarità significa trasmissione genetica della malattia di Parkinson.

STUDI SUI GEMELLI

Negli anni ’80 erano state manifestate molte perplessità sull’ipotesi genetica della malattia di Parkinson. Gli studi effettuati sui gemelli omozigoti e dizigoti, usando la concordanza tra gemelli, avevano in un certo senso evidenziato che non sussistevano dati a favore di una trasmissione di tipo genetico della malattia.
Questi studi sono stati successivamente rivisti con tecniche innovative come la tomografia con emissione di positroni (PET) che studia il danno della via nigro-striatale e che può evidenziare anche un parkinsonismo sub-clinico, cioè, può evidenziare un danno a livello della via nigro-striatale prima che si manifesti la malattia. La PET ha dimostrato la presenza di alterazioni dopaminergiche subcliniche in molti co-gemelli monozigoti e solo in pochi dizigoti; inoltre, una seconda PET effettuata dopo alcuni anni, ha mostrato una progressione delle alterazioni nigro-striatali nei soli co-gemelli monozigoti. Tali risultati suggeriscono fortemente l’esistenza di una possibile ipotesi genetica nella eziopatogenesi della malattia di Parkinson, almeno per la espressione del deficit nigro-striatale a livello subclinico. E’ possibile che per la progressione della malattia fino a livello clinico, siano necessari altri fattori, di tipo genetico e/o non genetico.

LA FAMIGLIA DI CONTURSI

A partire dagli anni ’90, gli studi di genetica della malattia di Parkinson hanno avuto un notevole impulso e hanno portato alla descrizione clinica di famiglie, con ampia genealogia, che presentavano, in più generazioni, una numerosa ricorrenza di casi di malattia di Parkinson.
La famiglia più interessante che è stata descritta agli inizi degli anni ’90 è stata la famiglia denominata di Contursi, dal nome del paesino del salernitano dove ha avuto origine all’incirca nel ‘700. Ha poi dato luogo a varie ramificazioni di cui molte anche negli Stati Uniti dove, inizialmente, è stata studiata. Nel 1996 erano stati raccolti addirittura 60 casi di malattia di Parkinson in cinque generazioni.
Nella famiglia di Contursi è stata individuata, per la prima volta, una causa ben precisa che ha portato allo  sviluppo della malattia di Parkinson.
Dall’analisi genetica molecolare tramite la sequenzializzazione del DNA, risultò infatti che i componenti malati della linea genealogica degli appartenenti alla famiglia di Contursi presentavano, sul braccio lungo del cromosoma 4, una mutazione nel gene dell’alpha-Synucleina, una proteina presente nelle terminazioni neuronali presinaptiche, che causava la malattia di Parkinson (Polymeropoulos e coll. 1996).
Inizialmente, questa scoperta è stata accolta con notevole entusiasmo.

PARKINSONISMI EREDITARI AUTOSOMICO DOMINANTI

L’alterazione riscontrata nel gene dell’alpha-Synucleina poteva essere la causa della malattia di Parkinson genetico. I risultati di numerosi studi effettuati poi su altre famiglie di origine europea, statunitense ma anche di altra provenienza, hanno smentito che le mutazioni nel gene dell’alpha-Synucleina siano così frequenti, anzi non ne sono state riscontrate. Il gruppo di studio europeo del quale anche io faccio parte , non ha   evidenziato mutazioni nel gene dell’alpha-Synucleina in 230 famiglie studiate.
E’ stato evidenziato in seguito, dallo stesso Polymeropoulos, in altre tre famiglie di origine greca, una mutazione a livello del medesimo gene dell’alpha-Synucleina con la sostituzione della Guanina in posizione G209A con l’aminoacido Alanina. Probabilmente, questa mutazione genetica uguale a quella della famiglia di Contursi potrebbe essere riconducibile ad uno stesso comune antenato.
Le mutazioni nel gene dell’alpha-Synucleina sono state ritenute una causa abbastanza rara di un   parkinsonismo  a trasmissione autosomica dominante ad alta penetranza.
In una famiglia tedesca è stata successivamente scoperta una sola altra mutazione del gene dell’alpha-Synucleina ma in un altro sito, con la sostituzione sempre della Guanina in posizione 88 con una citosina.
Ciò è stato molto importante poiché ha confermato il possibile ruolo patogeno della mutazione del gene dell’alpha-Synucleina.
Le mutazioni del gene dell’alpha-Synucleina hanno sicuramente un carattere di tipo monogenico anche se sono abbastanza rare e sono caratteristiche di alcune ampie genealogie.
Del resto anche le caratteristiche cliniche di questa forma di parkinsonismo sono diverse dalle caratteristiche cliniche della classica malattia di Parkinson. L’età di esordio è più precoce, la progressione della malattia è molto rapida, in genere c’è l’exitus verso i 9,2 anni, la risposta alla levodopa non è proprio eccellente, c’è inizialmente poi tende a perdersi, c’è una incidenza maggiore di demenza e molto spesso si presentano anche severa disfagia ed instabilità posturale. E’ un parkinsonismo più aggressivo.
E’ stato poi dimostrato che l’alpha-Synucleina è uno dei costituenti dei corpi di Lewy che sono una delle caratteristiche anatomo-patologiche più importanti della malattia di Parkinson. Nei casi delle famiglie esaminate che hanno raggiunto il tavolo autoptico, erano, infatti, presenti i corpi di Lewy.
Nel 1998 Gasser e Coll. hanno evidenziato, in un gruppo di famiglie  di origine europea ed americane di origine europea, un nuovo locus genetico di suscettibilità per la malattia di Parkinson sul braccio corto del cromosoma 2. Le caratteristiche cliniche della malattia sono molto più simili a quelle di una forma classica di malattia di Parkinson: l’età media di esordio verso i 59 anni, la progressione della malattia abbastanza lenta, l’unilateralità dei sintomi all’esordio, una buona rispondenza alla levodopa. Si riscontra però una maggiore percentuale di demenza. I corpi di Lewy sono presenti in un caso all’autopsia. Il gene non è noto e non si conosce, quindi, il prodotto genico. Lo studio è ancora in corso. Come per gli altri casi, questo locus genetico non è stato più confermato in nessuna altra famiglia. Si tratta di sei famiglie europee fra cui una italiana, due della Danimarca, una tedesca; molti dei discendenti vivono oggi in USA e Canada e gli individui affetti possiedono marcatori genetici identici lungo una regione discreta del locus, suggerendo una probabile mutazione comune in un progenitore ancestrale e rafforzando la probabilità che tale regione del cromosoma 2 contenga un gene di suscettibilità per la malattia.
Sono state, poi, identificate altre due alterazioni sempre con la trasmissione di tipo dominante sul braccio corto del cromosoma 4 di cui uno negli Stati Uniti. Si tratta di un parkinsonismo giovanile, con una buona risposta alla levodopa in fase iniziale, una maggiore incidenza di demenza, decorso aggressivo con exitus dopo 5-15 anni, presenza dei corpi di Lewy. Nella famiglia sono presenti anche casi di tremore posturale isolato senza altre caratteristiche di tipo parkinsoniano.
Un altro locus individuato sempre sul cromosoma 4 riguarda delle mutazioni che coinvolgono il gene dell’Ubiquitina Idrolasi-L1 carbossi-terminale (UCH-1). E’ stato descritto studiando, in una famiglia tedesca, due fratelli affetti dalla malattia di Parkinson. La UCH-1 è un enzima molto abbondante nel cervello costituendo il 2% di tutte le proteine cerebrali. La sua mutazione porta ad una significativa riduzione dell’attività enzimatica e potrebbe innescare, tramite una alterata degradazione proteica, un accumulo di proteine con una conseguente morte delle cellule nervose. Tale mutazione potrebbe essere importante: confermerebbe un coinvolgimento diretto delle vie di degradazione proteica intracellulare nella malattia di Parkinson. Sono stati però identificati solo due casi sulle 73 famiglie studiate. Si tratta quindi di casi abbastanza rari.
Recentemente è stato isolato in Giappone nel marzo 2002 un nuovo locus che ha determinato il Parkinson 8. In questo caso si tratta di una malattia di Parkinson proprio del tutto tipica soltanto con l’età di esordio  anticipata, in genere intorno ai 51,6 anni, Il gene è ancora in via di caratterizzazione, è stato isolato solo il locus.

FORME DI PARKINSONISMO EREDITARIO AUTOSOMICO RECESSIVO

A mano a mano che si raccoglieva i dati sulle famiglie che presentavano una sindrome di Parkinson a carattere autosomico dominante, è stato evidenziato anche un diverso tipo di parkinsonismo autosomico recessivo in cui si presentavano, nella stessa famiglia, più casi di fratelli affetti dalla malattia con genitori in genere sani. Queste famiglie, descritte nel 1998 in Giappone (ma qualche descrizione sporadica era stata effettuata anche nelle famiglie europee), sono state, inizialmente, un po’ trascurate. Si pensava che fossero dei casi legati soprattutto alle famiglie giapponesi con consanguineità (matrimoni tra parenti). Si trattava, più specificatamente, di parkinsonismo ad esordio giovanile (sono descritti perfino casi con esordio nell’infanzia).
Di queste forme, che sono state individuate in quattro famiglie giapponesi, è stato localizzato il gene sul braccio lungo del cromosoma 6. Il gene è stato denominato Parkin e il prodotto genetico parkina.
Le alterazioni riscontrate nelle famiglie giapponesi sono state poi riscontrate anche in famiglie europee. Lo studio più grosso, finora condotto, ha coinvolto due gruppi: uno formato da 73 famiglie e l’altro da 100 pazienti, questi ultimi con malattia di Parkinson di tipo sporadico, senza familiarità (almeno non riscontrata). Caratteristica comune dei due gruppi era la presenza di casi di malattia con esordio prima dei 45 anni di età.
I risultati di questo studio mostrano che circa:
– il 49% dei casi famigliari avevano mutazione del gene Parkin (in ben 36 famiglie delle 73 esaminate);
– il 18% dei casi isolati di malattia presentava una mutazione del gene Parkin, soprattutto nella fascia ad età di esordio molto precoce, prima dei 20 anni. Tra 21-30 anni, dei 23 casi osservati, 6 erano portatori di tale mutazione. Nei casi di inizio di malattia sopra i 30 anni, solo il 3% dei pazienti aveva una mutazione del gene Parkin (2 casi su 64).
Questi dati mostrano, quindi, che ci può essere un diverso sottotipo di malattia con esordio molto precoce, con progressione lenta, senza la presenza dei corpi di Lewy.
Le caratteristiche cliniche di questo forma di parkinsonismo sono: possibilità di distonie dell’arto inferiore all’esordio nel 42% dei casi, la simmetria dei sintomi nell’89% dei casi come nella forma classica di morbo di Parkinson, riflessi osteo-tendinei vivaci, possibile urgenza urinaria, buona risposta alla levodopa, l’incidenza di discinesie e fluttuazioni motorie indotte da levodopa è molto elevata. Sono assenti i disturbi cognitivi e autonomici gravi.

La struttura del gene Parkin è stata abbastanza caratterizzata. Il prodotto del gene Parkin è una proteina di 465 aminoacidi (parkina), con un segmento iniziale simile a quello dell’Ubiquitina. Ciò ha fatto ipotizzare che anche la proteina parkina partecipi al processo di degradazione proteica mediato dalla Ubiquitina. La presenza di proteine in eccesso prodotte a livello neuronale che portano alla morte i neuroni, potrebbe essere causata da una alterazione della funzionalità del gene della parkina. Le precise funzioni della parkina restano in ogni modo da chiarire.
Questo può spiegare anche la mancanza dei corpi di Lewy. La parkina è essenziale per la formazione dei corpi di Lewy. Se il gene per la parkina è deficitario, viene a mancare la funzione della parkina per la degradazione proteica. I precursori proteici sia accumulano intorno alla cellula. Non si formano per questo motivo i corpi di Lewy.

Studiando, successivamente, le famiglie parkina-negative, sono stati identificati altri due geni recessivi, entrambi sul braccio corto del cromosoma 1, a poca distanza l’uno dall’altro: PARK 6 (posizione p35-36) e PARK 7 (posizione p-36). Il PARK 6 è stato individuato esaminando una famiglia di origine siciliana, di Marsala. Questo risultato è stato poi confermato in altre 8 famiglie delle 28 famiglie europee controllate.
Per il PARK 7, il gene è stato individuato dal Dr.Bonifati, esaminando le famiglie del sud-est della Danimarca   isolate geneticamente, con un alto numero di matrimoni tra consanguinei, ed una famiglia italiana.Il gene individuato e’ stato denominato DJ-1 ed e’molto interessante perche’ la proteina codificata, anche se ancora sconociuta nella funzione, e’ connessa a meccanismi responsabili dello stress ossidativo considerato come una delle cause della morte neuronale nella malattia di Parkinson.
Nella trasmissione autosomica recessiva è spesso emerso il dato della consanguineità.
Questi casi sono stati individuati, molto frequentemente, in paesini piccoli, isolati geograficamente e si sono riscontrati anche dei casi di trasmissione di tipo pseudo-dominante. In una famiglia in cui sia il nonno, sia il papà più tre fratelli erano affetti dalla malattia di Parkinson, sembrava essere di fronte ad una trasmissione della malattia di tipo autosomico dominante. In realtà, tutti i pazienti erano positivi per la parkina. Andando a ricostruire l’albero genealogico, è stato scoperto che provenivano da un paesino di 300 abitanti e che si erano verificati matrimoni tra consanguinei.

Al momento le forme riscontrate di trasmissione monogeniche della malattia di Parkinson sono otto: cinque autosomico dominanti e tre autosomico recessive.
Le sindromi di Parkinson ereditarie autosomico dominanti sono estremamente rare e rappresentano reperti isolati. Al contrario, molto più frequenti sono i pazienti con parkinsonismo autosomico recessivo e mutazioni del gene Parkin (PARK2) così che tali forme genetiche sono significative per la pratica clinica.

GLOSSARIO ILLUSTRATO

LE CELLULE

Le cellule sono le unità di base di ogni organismo vivente. Dentro ogni cellula c’è un ambiente acquoso e quasi ogni cellula contiene una copia completa del nostro Gemona cioè del materiale genetico che costituisce il nostro organismo. Il Gemona è come una nazione: ogni cromosoma è una diversa regione e i più dei centomila geni sono le sue città e i suoi paesi.

Il DNA

La sua struttura a cerchi è fatta di zuccheri e di fosfati, come una scala a chiocciola, la famosa doppia elica contiene la ricetta stessa della vita. Gli scalini della scala del DNA sono fatti di quattro elementi chimici conosciuti con le lettere A (adenina) T (timina) G (citosina) e C (guanina). La sequenza del DNA non è altro che il modo in cui 3.1 miliardi di lettere sono combinate fra di loro.

IL CROMOSOMA

Un cromosoma è un piccolo insieme di geni all’interno del nucleo di una cellula.
Ognuno di noi possiede 46 cromosomi fra cui:
– due cromosomi sessuali: il cromosoma X e il cromosoma Y. Le femmine possiedono due copie dell’X (XX) e i maschi possiedono un cromosoma X e un cromosoma Y (XY). Nell’accoppiamento ogni genitore dona un cromosoma di ciascun paio in modo che il figlio abbia metà cromosomi dalla madre e metà dal padre;
– 44 cromosomi non sessuali (autosomi) uguali a due a due. In altre parole 22 coppie di autosomi.

IL GENE

Dato che i cromosomi si presentano a coppia, noi possidiamo due copie dello stesso gene. Ciascuno cromosoma della stessa coppia (autosoma) contiene, quindi, una copia dello stesso gene, detta allele. Un allele proviene dal padre e uno dalla madre. Ogni essere umano ha 3.2 miliardi di copie di geni.
Non sempre gli alleli sono uguali fra di loro, anzi spesso presentano delle differenze.
Un individuo che possiede due alleli diversi si dice eterozigota.
Un individuo che possiede due alleli uguali dello stesso gene si dice monozigota.

LA PROTEINA

Ogni proteina è il prodotto di un particolare gene. Il nostro corpo non potrebbe funzionare senza le proteine che lavorano all’interno delle cellule e svolgono una serie di attività agendo come enzimi, come ormoni, come anticorpi.

MALATTIA MONOGENICA O MENDELIANA

sono malattie dovute all’alterazione di un singolo gene che si possono trasmettere con tre modalità diverse: autosomica dominante, autosomica recessiva e legata all’X.

LA TRASMISSIONE AUTOSOMICA DOMINANTE

si verifica quando la presenza di un solo allele alterato (cioè di una copia dello stesso gene) è sufficiente per dare origine alla malattia. La malattia quindi si manifesta sia negli individui eterozigoti che omozigoti. E’ come se l’allelle alterato dominasse su quello normale, per questo si parla di trasmissione dominante. Per questa modalità di trasmissione non esistono portatori sani.

LA TRASMISSIONE AUTOSOMICA RECESSIVA

perché si verifichi la malattia è necessario che entrambi gli alleli (le due copie dello stesso gene) siano alterati. La malattia si manifesta solo negli individui omozigoti, mentre gli eterozigoti sono portatori sani.

L’EREDITARIETÀ’ DEL PARKINSON
LE DOMANDE PIU’ RICORRENTI

Qual è il rischio genico del Parkinson comune, non familiare, sporadico che è la forma più comune della malattia di Parkinson?
Esiste un certo rischio genico, sempre pero’ molto basso, nelle forme ad esordio precoce della malattia, prima dei 40-45 anni e soprattutto nelle forme precocissime (prima dei 20 anni), soprattutto con la presenza delle mutazioni del gene Parkin. Per le forme autosomico dominanti il rischio di trasmissione genetica della malattia di Parkinson è molto basso e comunque quasi irrilevante
Con una storia di familiarità, il peso genetico e’ maggiore. Per quanto riguarda le forme di  malattia di Parkinson sporadiche non sono state ancora identificate alterazioni geniche, l’ipotesi più accreditata e’ quella multifattoriale.

In che modo si può affermare che in una famiglia ricorrono casi di familiarità della malattia di Parkinson?
E’ più complesso di quanto si pensi.
Le diagnosi del passato sono, in gran parte, poco attendibili. I criteri diagnostici di venti anni fa erano  diversi da quelli attuali e non si diagnosticavano tante forme di malattia che assomigliano alla malattia di Parkinson e che si possono confondere con questa.
Di fronte ad una persona che dichiara una familiarità di malattia di Parkinson occorre verificare, veramente, che questa ci sia e che si parli della stessa malattia.
E’ necessario fare molta attenzione. Non si devono quindi includere come casi familiari i parkinsonismi.
Nel caso in cui ci sia una familiarità netta, chiara, si deve allora risalire alla storia genealogica della famiglia per verificarne le caratteristiche.
In questo caso si può discutere anche dell’eventuale discendenza.
Generalmente, si riscontra una rara familiarità. In una famiglia ci possono essere una oppure due persone affette dalla malattia di Parkinson, in alcuni casi anche  tre o più, però  c’è da considerare anche il rischio che per pura casualità in una stessa famiglia ci sia più di un malato.

Quando si deve pensare di trovarsi alla presenza di una sindrome di Parkinson su base genetica?
L’indicazione più importante è una anamnesi positiva (ciò significa altri componenti della famiglia ammalati).
Attualmente, l’unica forma conosciuta di malattia di Parkinson monogenica, clinicamente rilevante, è la forma associata alla mutazione del gene Parkin. A causa della ereditarietà di tipo recessivo è tuttavia spesso difficile rilevare una anamnesi familiare positiva. Si dovrebbe però pensare ad una sindrome di Parkinson, con mutazione del gene Parkin, particolarmente in presenza di una età precoce di insorgenza e in presenza di sintomi clinici aggiuntivi.

E’ possibile fare dei test genetici?
I test genetici per la mutazione del gene Parkin sono estremamente dispendiosi sia in termini di tempo che di denaro e al momento sono possibili solo nel contesto di progetti di ricerca condotti da cliniche universitarie che si occupano specificatamente di genetica del Parkinson. Anche per le famiglie-Parkinson con eredità di tipo dominante o recessivo, senza mutazione del gene Parkin, possono essere condotti esami di genetica molecolare principalmente (tramite l’analisi di accoppiamento) nei centri appositi.

Cosa è l’analisi di accoppiamento?
L’analisi di accoppiamento (linkage) si basa sulla tendenza di due geni diversi ad essere ereditati insieme e aventi collocazione sullo stesso cromosoma. Si necessita di famiglie con ampia genealogia, nel migliore dei casi che presentino almeno da otto fino a dieci persone colpite dalla malattia. L’obiettivo è di trovare, tramite un marker genetico, nel cromosoma, la localizzazione del gene che si ipotizza portatore della mutazione che causa la malattia di Parkinson. Non appena la localizzazione genetica è conosciuta, viene ricercata nella regione cromosomica la mutazione nei geni candidati di maggiore interesse.

L’attuale terapia farmacologica antiparkinson è efficace per queste forme di Parkinson ereditario?
Tutte le sindromi di Parkinson descritte rispondono bene alla terapia con levodopa. In particolare, il parkinsonismo associato al gene Parkin. In questo caso, a causa della sua precoce età di insorgenza e della normale aspettativa di vita del soggetto giovane che ne viene colpito, si deve considerare un decorso molto lungo della malattia. Dopo anni di terapia con levodopa, per i giovani pazienti è da aspettarsi la comparsa di complicazioni motorie indotte dalla levodopa, come per esempio le fluttuazioni motorie e le discinesie. Per tale motivo, per questi pazienti, dal punto di vista terapeutico è da preferire in prima istanza una terapia con dopaminoagonisti o una terapia di combinazione con dopaminoagonisti e levodopa.
 
Mia nonna era affetta dalla malattia di Parkinson e adesso anche mio padre. E’ una malattia ereditaria?
La preoccupazione espressa dalla sua domanda è assai diffusa e del tutto comprensibile.
La probabilità di una trasmissione ereditaria del morbo di Parkinson è oggi nota. Sono stati addirittura identificati almeno due geni che sembrano essere responsabili della trasmissione della malattia. Questa mutazione genetica riguarda, per fortuna, solo un numero estremamente limitato di famiglie nel mondo e la stragrande maggioranza degli individui parkinsoniani esaminati ne sono risultati indenni. La ricerca di questa mutazione ha oggi un senso solo nell’ambito della ricerca scientifica.
La malattia parkinsoniana risulta quindi ereditaria in senso stretto solo in casi eccezionali.
Anche in assenza di anomalie genetiche in grado di determinare la trasmissione diretta di questa malattia ad alcuni dei discendenti, sembra che alcune persone con un parente stretto affetto dalla malattia di Parkinson, abbiano una maggiore probabilità di sviluppare la malattia.
Si tratta probabilmente di una predisposizione a contrarre la malattia lievemente superiore rispetto alla norma, ma questa maggiore probabilità è talmente bassa da non poter essere quantificata con esattezza.

CAUSE GENETICHE AMBIENTALI E PROFESSIONALI DELLA MALATTIA DI PARKINSON
PROGETTO EUROPEO “GEOPARKINSON”

Dati preliminari
DR. GIUSEPPE DE PALMA
Laboratorio di Tossicologia Industriale
Dipartimento di Clinica Medica, Nefrologia e Scienze della Prevenzione, Sez. Medicina del Lavoro Università di Parma

Il titolo della presentazione riprende l’acronimo del progetto sulle interazioni tra fattori genetici ed ambientali (G sta per gene; E sta per environment, ambiente) nella malattia di Parkinson, finanziato dall’Unione Europea e che è entrato nel terzo ed ultimo anno di svolgimento. Ci sembrava giusto in questa occasione del Convegno organizzato dall’Unione Parkinsoniani, presentare alcuni dati che possono essere considerati, per il momento, solo preliminari in quanto lo studio sarà concluso a metà dell’anno 2003.
Il progetto è nato da uno studio pilota condotto quattro anni fa dal nostro Dipartimento in collaborazione con l’Istituto di Neurologia dell’Università degli Studi di Parma, con lo scopo di studiare le interazioni tra fattori genetici e fattori ambientali e professionali nello sviluppo della malattia di Parkinson.
Queste interazioni sfavorevoli sembrano essere alla base della maggior parte delle forme di morbo di Parkinson che si presentano sporadicamente all’osservazione.
Il progetto iniziale si è ampliato coinvolgendo quattro Università di quattro diversi paesi europei: l’Università di Parma, l’Università di Linköping (Svezia), l’Università di Bucarest (Romania) e l’Università di Aberdeen  (Scozia), che coordina il progetto e dove saranno elaborate statisticamente le informazioni inviate da parte di ciascun Centro di ricerca.
Lo studio è multicentrico, in accordo con l’obiettivo di studiare le interazioni tra fattori su una casistica sufficientemente ampia, sicchè i risultati possano raggiungere la stabilità statistica e dunque essere considerati affidabili. Un ulteriore vantaggio offerto da tale studio è che coinvolgendo quattro paesi dell’Unione Europea, a differenti latitudini, il progetto consente di valutare il ruolo dei diversi fattori di rischio presenti, sia genetici che ambientali nei singoli paesi. Nei paesi di diversa la latitudine, l’incidenza di tali fattori dovrebbe essere rappresentata con frequenze diverse dal punto di vista quantitativo nonché qualitativo.
Lo studio è del tipo caso-controllo e prevede l’arruolamento in totale di 2400 pazienti, ripartiti in 800 casi e 1600 controlli. Il contributo di ciascun Centro di ricerca è di 200 casi (soggetti affetti da morbo di Parkinson) e 400 controlli (soggetti non affetti da morbo di Parkinson al momento del reclutamento).

L’IPOTESI DELLO STUDIO

Ciascun soggetto partecipante allo studio ha risposto ad un questionario strutturato per la raccolta di informazioni relative all’esposizione a fattori di rischio ambientali e professionali. Sono state contestualmente effettuate, su campioni di sangue prelevati dagli stessi soggetti partecipanti, delle analisi genetiche per caratterizzare i polimorfismi degli enzimi del metabolismo intermedio che intervengono nella biotrasformazione delle sostanze chimiche ed i polimorfismi di alcuni geni implicati nel metabolismo e nell’attività della dopamina: recettori della dopamina D2, trasportatore presinaptico della dopamina (DAT), monoaminoossidasi di tipo A e B (MAO-A e MAO-B), che intervengono nella degradazione metabolica della dopamina.
Il loro polimorfismo può rappresentare un indicatore biologico di suscettibilità individuale per lo sviluppo della malattia di Parkinson.
L’ipotesi che guida il progetto è che la maggior parte dei casi di malattia di Parkinson, in quanto malattia multifattoriale, possa derivare più che da un intervento esclusivo di agenti chimici o da un intervento esclusivo di fattori genetici, da una interazione sfavorevole che si viene a creare tra le sostanze chimiche assorbite dall’organismo ed il metabolismo delle stesse. In condizioni di particolare suscettibilità individuale, questa interazione può condurre a situazioni di “stress ossidativi” a livello dei neuroni della sostanza nigra, provocandone la perdita e quindi favorire lo sviluppo della malattia di Parkinson.
Molto sinteticamente, per valutare la suscettibilità a sviluppare la malattia di Parkinson, l’attenzione è stata rivolta al processo di biotrasformazione, che è di fatto quel complesso di reazioni metaboliche a cui vanno incontro le sostanze chimiche assorbite dall’organismo e che schematicamente può essere suddiviso in una “Fase uno” ed in una “Fase due”. La “Fase uno” ha un significato di bioattivazione metabolica, ossia di conferimento di proprietà tossicologiche alle sostanze chimiche assorbite, la “Fase due” è la fase invece di detossificazione, che favorisce l’escrezione delle sostanze tossiche dopo coniugazione con molecole endogene altamente solubili.
L’ipotesi è che ci possa essere nei soggetti suscettibili uno sbilanciamento tra le due fasi, favorente lo sviluppo di uno “stress ossidativo”, nei confronti del quale la sostanza nigra presenta una vulnerabilità particolare.
I dati sin qui analizzati, raccolti a Parma, si riferiscono a 203 pazienti e a 200 controlli; i pazienti erano soggetti con la forma idiopatica classica di malattia di Parkinson.

LE CAUSE AMBIENTALI E PROFESSIONALI

L’età media dei pazienti esaminati è di circa 67 anni e quella del gruppo di controllo di 65 anni. I soggetti affetti da malattia di Parkinson avevano una durata di malattia media di circa 7 anni.
I fattori di rischio indagati dal questionario, riguardavano alcuni fattori socio-demograficici: l’età, il sesso, la scolarità, la residenza dei pazienti, le abitudini voluttuarie dei pazienti con particolare riferimento al fumo di tabacco e all’abitudine di bere caffè, la familiarità di primo grado (genitori, fratelli) e di secondo grado (collaterali), l’aver bevuto l’acqua di pozzo nel corso della propria vita, l’esposizione professionale ad agenti chimici generici, a solventi organici, a metalli, a erbicidi e a pesticidi.
Dai dati raccolti non sembra esserci nel gruppo dei pazienti un eccesso significativo di esposizione a fattori di rischio ambientali – professionali. Fa eccezione l’esposizione a pesticidi – erbicidi che riguarda 42 casi e 27 controlli, con un rischio di 1,77.
Viene confermato il ruolo protettivo, segnalato già da numerosi studi in letteratura e anche dal nostro precedente lavoro, dell’abitudine al fumo di sigaretta e a bere caffè. Per il caffè, il ruolo protettivo sembra essere dose-dipendente (due-quattro tazzine di caffè).
Per la distribuzione della familiarità, in accordo con i dati già presenti in letteratura, nel gruppo dei pazienti c’è un eccesso di casi ricorrenti di malattia nella stessa famiglia (31 casi di familiarità di primo grado e 18 casi di familiarità di secondo grado), rispetto ai controlli.
Benché avere subito traumi cranici e avere bevuto acqua di pozzo siano stati considerati in letteratura altri fattori patogenetici, il nostro studio, parimenti a quello precedentemente condotto, non evidenzia un eccesso di rischio significativo.

FREQUENZE DEI POLIMORFISMI

L’analisi della distribuzione dei fattori genetici non evidenzia, almeno al momento, un ruolo di maggiore rischio per lo sviluppo della malattia da parte di varianti in un qualche fattore genetico tra quelli considerati: le glutatione S-transferasi M1, T1, M3, P1; l’enzima NQO1 deputato alla riduzione dei chinoni; il citocroma P4501B1 espresso a livello della sostanza nigra cerebrale.

INTERAZIONI

Dopo l’analisi dei singoli fattori siamo passati allo studio delle interazioni che per il momento, dato l’esiguo numero di dati disponibili, è stato affrontato con un approccio limitato al gruppo dei casi. Non si è, cioè, tenuto conto, in tale analisi, del gruppo di controllo.
Viene confermato il risultato, già emerso nello studio precedente, di una interazione negativa tra fumo di sigaretta e genotipo GSTM1 positivo. L’effetto “protettivo” del fumo sembra essere limitato al gruppo di soggetti con genotipo GSTM1 positivo. In proposito abbiamo formulato delle ipotesi, aspettiamo comunque la conferma di questo risultato dall’analisi della casistica completa.
Un’ulteriore interazione evidente è quella fra la variante normale del citocroma P4501B1, enzima di “Fase 1” espresso a livello della sostanza nigra cerebrale, e l’esposizione a pesticidi-erbicidi, con un rischio di circa 3 per la presenza dei due fattori. Alcuni pesticidi, per i quali peraltro è stato descritto un accumulo, in reperti autoptici di soggetti affetti da malattia di Parkinson, proprio a livello della sostanza nigra, sono bioattivati da questo enzima. E’ possibile che questo meccanismo di attivazione a livello della sostanza nigra, con produzione locale di radicali liberi, possa supportare questa interazione.
Si è inoltre visto nel nostro campione una sovra-rappresentazione dell’allele CYP1B1 “normale” nei pazienti con familiarità di primo grado. Ci siamo chiesti quale fosse il significato. Sicuramente CYP1B1 non è un gene che possa determinare dal punto di vista genetico una trasmissione autosomica dominante. In queste famiglie potrebbe esserci un eccesso, per abitudini particolari, di un qualche fattore di rischio che interagisce negativamente con questo particolare allele CYP1B1.
Abbiamo inoltre valutato, sempre in maniera preliminare, come le differenti esposizioni ambientali – professionali possono influenzare il decorso clinico della malattia di Parkinson.
Fra i soggetti non esposti l’età di esordio della malattia di Parkinson è intorno ai 61 anni mentre nei soggetti invece che presentano una storia positiva di esposizione professionale a solventi e metalli abbiamo evidenziato un anticipo dell’esordio della malattia (58,2 e 55,7 anni, rispettivamente).
L’analisi definitiva dei dati potrà condurre ad una verifica su scala europea e, quindi, ad una migliore comprensione dei meccanismi di malattia, utile per la messa in atto di strategie terapeutiche e preventive sempre più efficaci.
In conclusione, un ringraziamento a tutti i pazienti che hanno partecipato allo studio contribuendo al suo svolgimento.

DOMANDA

C’è una correlazione negativa tra fumo di sigaretta e il rischio di Parkinson, forse per un assetto neuro-endocrino di chi è destinato al Parkinson diverso da quello di chi il Parkinson non l’ha. Non vorrei che passasse il messaggio che fumare non espone il rischio del Parkinson.

RISPOSTA

Certo, ha ragione, dai nostri dati e dai dati di letteratura si può dire che tra la malattia di Parkinson e fumo esiste un’associazione di tipo negativo, per cui si attribuisce un effetto di tipo “protettivo” al fumo di sigaretta. La spiegazione della plausibilità biologica di questo ruolo “protettivo” richiede ulteriori studi e dimostrazioni.

GENETICA NEL PARKINSON: IL TERZO GENE

E’ stata scoperta recentemente una mutazione del gene della proteina Dj-1, localizzato sul cromosoma 1, in due famiglie con una storia di malattia di Parkinson ad esordio precoce.
In una famiglia d’origine italiana la proteina era inattiva, mentre nell’altra, olandese, era completamente assente. Il ruolo della proteina Dj-1 nell’organismo è ancora sconosciuto.
Dati preliminari fanno ritenere che possa proteggere le cellule dall’ossidazione, prevenendo la formazione dei radicali liberi e quindi potrebbe esserci un legame tra l’alterazione di questo gene e lo stress ossidativo, presente nella malattia di Parkinson.
Dopo il gene dell’alpha- Synucleina e il gene della parkina si tratta del terzo gene al quale è stato identificato il prodotto genetico (DJ-1).La mutazione del gene della proteina Dj-1 potrebbe inoltre aiutare a comprendere i meccanismi di azione che portano alla comparsa di casi precoci di Parkinson.

PARKINSON, SCOPERTO UN NUOVO GENE

Ricerca italiana sulla forma che colpisce i giovani, Dallapiccola: primo passo per farmaci rivoluzionari

Una famiglia di Marsala,  diversi matrimoni fra consanguinei, la stessa malattia che colpisce quattro persone tra padri, figli e nipoti.
E’ su questo quartetto così speciale che i neurologi dell’Università Cattolica di Roma 4 anni fa decidono di indagare.
Vogliono scoprire qual è il segreto che li lega e li condanna a una forma di Parkinson giovanile.
L’avventura attraverso i misteri della degenerazione cerebrale che non ha risparmiato personaggi celebri (il Papa, Cassius Clay) si è conclusa ieri, con la pubblicazione dello studio sulla rivista Science. Le nuove conoscenze potrebbero determinare una cambiamento radicale nelle cure e portare alla messa a punto dei primi farmaci terapeutici e addirittura preventivi.
Ci vorranno alcuni anni, ma la prospettiva non è remota.
Il segreto è racchiuso in un gene di una piccola regione cromosomica, ribattezzato Pink1, che i quattro componenti della famiglia siciliana condividono.
E’ questo piccolo elemento del DNA che, se alterato, impedisce il corretto funzionamento dei mitocondri, minifabbriche di energia per le cellule del cervello.
Ecco allora che, in presenza del difetto genetico, i neuroni non vengono alimentati e vanno incontro a deterioramento.
Col tempo, mano a mano che le cellule nervose muoiono, compaiono i segni del Parkinson.
“Possiamo pensare di sperimentare sui pazienti dei farmaci che permettono al mitocondrio di mantenere la sua funzione di motore – spiega Alberto Albanese, il neurologo dell’Università Cattolica che ha seguito la ricerca dall’inizio, assieme ad Anna Rita Bentivoglio -. Terapie del genere esistono già, sono utilizzate per altre patologie, si tratta di provarle per il Parkinson. Per la prima volta possiamo ipotizzare di cambiare il destino del morbo”.
Allo studio pubblicato da Science hanno partecipato diversi gruppi, quasi tutti italiani.
Il gene PINK1 è stato individuato da Enza Maria Valente, giovane neurogenetista, ex della Cattolica, anni di formazione a Londra, ora in forze presso l’istituto romano Mendel diretto da Bruno Dellapicocla.
I finanziamenti sono arrivati da Telethon, che ha investito in questo settore 750 mila euro dal 1997, per sette progetti.
“Comprendere le basi biologiche di una malattia è il primo passo per impostare strategie farmacologiche – dice Dallapiccola – non tutte le forme di Parkinson sono ereditarie e non sappiamo quanto sia diffusa quella della famiglia di Marsala e delle altre tre che, successivamente, sono state identificate in Italia e Germania. Il PINK1 sembra avere un ruolo speciale rispetto ai cinque geni che già conosciamo”.
Il Parkinson è la più frequente malattia degenerativa dopo l’Alzheimer, una delle più diffuse dell’età avanzata.
Colpisce il 2% della popolazione dopo i 65 anni e il 3-4% dopo i 75, può esordire anche in età giovanile.
CORRIERE DELLA SERA- aprile 2004

IL NUOVO GENE: PINK1

Con la recente pubblicazione (Science Online del 15 aprile) di una ricerca internazionale è stato raggiunto un progresso molto importante per comprendere meglio le cause della malattia di Parkinson.
Al lavoro hanno partecipato ricercatori di 5 paesi (Italia, Regno Unito, Germania, Spagna, Usa) con un ruolo leader dell’Istituto Mendel di Roma e l’Ospedale Queen Square di Londra, tra gli altri partecipanti sono l’università di Francoforte oltre alle università Sapienza e Cattolica di Roma, le Università di Modena e Reggio Emilia e l’Istituto Carlo Besta di Milano.
Analizzando il DNA di due famiglie italiane e una famiglia spagnola i cui membri soffrono di una forma ereditaria della malattia ad esordio precoce, è stato scoperto il gene responsabile di questa forma ereditaria (esistono altre forme ereditarie e la grande maggioranza dei casi non è ereditaria, ma le scoperte genetiche gettano comunque luce su tutte le forme della malattia).
Il gene si chiama PINK1 (“PTEN-induced kinase 1”) e corrisponde alla localizzazione cromosomica di nome PARK6 che era stata individuata 3 anni fa.
La novità importante della scoperta sta nel fatto che conferma il ruolo fondamentale di una disfunzione dei mitocondri (strutture cellulari che producono l’energia) nello sviluppo della malattia. Il gene codifica infatti una proteina finora sconosciuta della membrana dei mitocondri che, secondo i primi esperimenti eseguiti su colture cellulari, potrebbe preservarne la funzione quando vengono sottoposti a stress ossidativi.
Da tempo si sa che la malattia è associata a una disfunzione dei mitocondri in quanto altre loro proteine (soprattutto il complesso I) perdono parte della loro efficienza nel cervello dei malati di Parkinson.
La scoperta della mutazione sottolinea il ruolo centrale dei mitocondri in modo inequivocabile e avrà un ruolo importante per indirizzare verso questa strada la ricerca di cause, prevenzione e terapia.

SCOPERTO GENE DEL PARKINSON
UN ALTRO PASSO VERSO LA CURA

La malattia di Parkinson si sviluppa in genere intorno ai 60 anni di età per cause quasi sempre sconosciute.
Ma quando i primi sintomi compaiono a 30 o 40 anni e il morbo è ricorrente all’interno di una stessa famiglia, si può star certi che il problema è localizzato nel DNA.
Uno dei geni responsabili del Parkinson giovanile è stato appena individuato da una équipe internazionale guidata dalla giovane Enza Maria Valente e dal genetista Bruni Dallapiccola dell’Istituto Mendel di Roma.
Si tratta di un frammento di DNA battezzato Pink1 che è stato localizzato sul cromosoma 1.
Gli studi sono stati condotti su due famiglie italiane (una siciliana e una del centro) che erano in cura all’Università Cattolica di Roma e su una terza famiglia spagnola.
Il ruolo di Pink 1 consiste nel codificare una proteina importante per il funzionamento dei mitocondri, le centrali energetiche che permettono alle cellule di sopravvivere.
l malfunzionamento di Pink1 provocherebbe una sorta di crisi energetica della cellula (nel caso del Parkinson il neurone), rendendola molto debole di fronte allo stress dell’ambiente esterno, in particolare quelli ossidativi (causati ad esempio dai radicali liberi).
La scoperta, finanziata anche da Telethon e pubblicata oggi dalla rivista “Science”, sottolinea per la prima volta il ruolo dei mitocondri nella progressione di questa malattia neurodegenerativa.
Ai ricercatori si apre una nuova prospettiva di studio, e ai farmacologici una nuova via di sviluppo di medicinali.
L’esatto meccanismo che porta al Parkinson attraverso la distruzione progressiva di alcuni tipi di neuroni (quelli responsabili della produzione del neurotrasmettitore dopamina, attraverso il quale le cellule del cervello comunicano fra di loro) è infatti ad oggi ancora sconosciuto.
E non è escluso che questa scoperta possa essere utile a svelare anche i meccanismi dell’Alzheimer un’altra malattia neurodegenerativa dai contorni ancora sconosciuti.
La Repubblica 16 aprile 2004

PARKINSON GIOVANILE
UNA SCOPERTA GENETICA APRE LA STRADA ALLA CURA

E’ stato individuato un gene responsabile di una forma rara ed ereditaria del morbo di Parkinson.
La causa di questa malattia sarebbe da attribuire a una mutazione del gene Pink1 che, in condizioni normali, avrebbe invece la funzione di proteggere i neuroni dallo stress indotto da disfunzioni dei mitocondri.
Questo gene, dunque, svolgerebbe un ruolo importante nel mantenimento della corretta funzione dei mitocondri e nella protezione delle cellule nervose da condizioni di stress, come ad esempio lo stress ossidativo.
Ma a fronte di una mutazione di Pink1, i neuroni dopaminergici (quelli colpiti dal Parkinson) diventano più vulnerabili a condizioni di stress.
La conseguenza è un processo di neurodegenerazione e lo sviluppo della malattia.
La scoperta del gruppo coordinato dalla ricercatrice Enza Maria Valente è stata effettuata nei laboratori dell’Istituto Mendel di Roma, diretto dal genetista Bruno Dallapiccola ed è frutto di un progetto finanziato da Telethon e condotto in collaborazione con l’Università Cattolica sotto il coordinamento del Prof. Alberto Albanese.
Lo studio, pubblicato su “Science” apre la strada alla ricerca di nuove cure per il morbo di Parkinson Il Sole 24 ore, 16 aprile 2004

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