SOSTEGNO PSICOLOGICO
– Tante storie con mister Parkinson
– Diagnosi di Parkinson: come informare i nostri figli
– Il rapporto di coppia
– I pensieri di una moglie…
– La diagnosi di Parkinson: come possono reagire i nostri figli?
– Il sostegno psicologico attraverso l’intervento di gruppo: un’esperienza pilota
– Il ruolo del Medico di Medicina Generale (MMG) nella gestione clinica del malato parkinsoniano
– La dimensione psicologica del malato di Parkinson
– Domande allo psicologo
– La malattia di Parkinson nella famiglia
– Il sostegno psicologico a malati e familiari
– Un anno con i malati
– Un anno con i familiari
– Le risposte della psicologa
– Come far fronte alla malattia di Parkinson
– L’impegno dei familiari
– E’ molto importante la collaborazione tra familiari e medico
– Il rapporto medico-paziente nella malattia di Parkinson
– Il rapporto medico di base- specialista-paziente
– Cosa dire allo specialista
SONO TRANQUILLA
Ho 65 anni, ho la malattia di Parkinson da nove anni. Devo purtroppo segnalare che i primi sintomi, quali la difficoltà nello scrivere, nel lavarmi i denti, nel compiere piccoli movimenti e il trascinare leggermente il piede destro, furono segnalati al medico di base nonché a vari specialisti che non riconobbero la malattia. Quasi per caso fui invece visitata dai medici del reparto di neurologia dell’Ospedale della mia città che, vedendomi solamente camminare, diagnosticarono la malattia. Come ho reagito? Mi stupisco ancora per la tranquillità che mi ha sempre accompagnato. Conduco una vita normale, faccio attività motoria quasi tutti i giorni, sono solo un po’ più lenta e talvolta mi sento un po’ più pesante. Sono seguita da un ottimo medico, ho fiducia in lui, in certi momenti il futuro mi spaventa, ma passa subito.
Irene
UN ESEMPIO DI VITA
Mio padre si è ammalato della malattia di Parkinson quando era ancora piuttosto giovane, io avevo circa due anni. Ricordo che all’inizio ha scritto ai migliori neurologi italiani per saperne di più sulla malattia. Si recava spesso a Roma, al Policlinico Gemelli, e successivamente all’Ospedale di Pisa per cercare dei trattamenti più efficaci e più congeniali al suo stato di salute. Ma stava sempre peggio e, con il tempo, per lui non era più così facile spostarsi, oltretutto aveva costatato che era piuttosto inutile visto che non esisteva alcuna cura che lo potesse far guarire. E’ venuto a mancare dopo circa ventisei anni di malattia. Ha vissuto tutti questi anni con grande dignità, non si è mai lamentato, non si è mai spazientito, a quanti gli chiedevano “come stai?” rispondeva sempre «bene»; conoscevo la sua malattia solo da ciò che vedevo esteriormente. Sono stati anni difficili per tutta la famiglia, soprattutto ci spaventavano le cadute. Mi ha afflitto molto anche il senso di impotenza nel non poterlo aiutare più di tanto e una profonda tristezza ha accompagnato la mia infanzia e la mia adolescenza. E’ stato il mio primo pensiero al risveglio e l’ultimo prima di addormentarmi. L’ho amato profondamente, non perché era malato fisicamente, ma perché era il più sano di tutti mentalmente e psicologicamente, insomma come essere umano. Nonostante gli impedimenti della malattia è stato un «padre» nel senso pieno del termine per me e per le mie sorelle. Ci ha insegnato a vivere, anche nelle situazioni più difficili, ci ha insegnato a trovare gioia e serenità interiore anche durante le tempeste della vita, pensando al suo esempio trovo la forza di affrontare qualunque cosa. Mi ha lasciato davvero una bella eredità! Se scrivo qui è per condividere questa eredità con coloro che vorranno dedicare qualche minuto a leggere ciò che ho scritto, spero che sia in qualche modo utile a malati e familiari, che comprendano che si può trovare la serenità, la gioia, l’armonia e l’amore anche in situazioni difficili come quelle cui questa malattia sottopone e che essa, se si riesce a viverla nel modo giusto, può in qualche modo anche divenire un’occasione di crescita interiore. A chi si trova in questa difficile situazione auguro di non perdere mai la speranza e mi sento vicina con il cuore a tutti coloro che ne soffrono come se fossero tutti “mio padre”.
Edy
L’AMICIZIA E’ UN VALORE
Da circa nove anni mi è stata diagnosticata la malattia di Parkinson dopo un intervento chirurgico per asportare una protrusione cervicale che sembrava la causa delle difficoltà di movimento del braccio destro. Purtroppo, l’intervento non portò nessun miglioramento, così iniziai una serie di accertamenti neurologici, fino al giorno in cui la neurologa non si accorse che una microscrittura, tipica della malattia di Parkinson, aveva sostituito la mia bella scrittura. Così scoprii di avere un nuovo compagno di vita. Con l’assunzione della terapia antiparkinson i sintomi migliorarono notevolmente, tanto da darmi la possibilità di continuare a svolgere il mio lavoro in Ospedale, senza che nessuno si accorgesse di niente. Anche se agli occhi degli altri era tutto normale, percepivo alcune difficoltà che contrastavo con una dose maggiore di energia, arrivando così a fine turno molto provata.
Così per cinque anni …. e questo, lo riconosco, è stato un grosso errore. Non condividere con altri i miei problemi, tenermi tutto dentro, ha portato alla negazione della malattia, alla difficoltà di accettarla. In questi anni ho imparato a rallentare ritmi e tempi, a guardarmi dentro e a rispettarmi di più, ad accettare i miei limiti senza vergognarmene, a dare importanza alle cose che ne hanno veramente e a farmi scivolar via tutto quello che può farmi male. Ho imparato il valore dell’amicizia, della condivisione, quanto sia importante l’affetto di chi mi circonda e quanto, a volte, una parola gentile sia sufficiente per riportare il sorriso. Certo, le preoccupazioni sono molte, ma una cosa è certa …. si lotta, giorno dopo giorno, ma non ci si deve arrendere MAI.
Nadia
HO BISOGNO DI TE
Da qualche anno mia madre combatte con la malattia di Parkinson che chiama, ironicamente, “Signor Parky”. Accettare la malattia non è stato facile né per lei, né per noi familiari che piano piano abbiamo visto spegnersi una persona sempre allegra, spensierata e che non si fermava mai; in poco tempo la malattia le ha tolto tutto:
il lavoro, la macchina, la sua libertà… Ho visto mia madre spegnersi lentamente e sono dovuta crescere in fretta, cercando di starle vicino nei momenti più brutti, anche quando si chiudeva in camera con la luce spenta, buttata su quel letto che ho odiato con tutta me stessa … più la guardavo e più non riconoscevo quella donna che mi aveva cresciuta. Quante volte ho pianto in silenzio, senza farmi vedere, perché lei non aveva bisogno di questo ma solo di tanto amore e tanta comprensione. Ora la sua malattia sembra essersi «assestata» fortunatamente cammina da sola e, anche se ci sono quei giorni in cui cambia il tempo e si blocca, riesce ancora ad essere autosufficiente ed è questa la cosa più importante. A tutti quelli che soffrono di questa malattia dico solo di non arrendersi, di lottare sempre e comunque perché c’è sempre qualcuno che vi ama e che vi guarda anche solo da lontano e che dentro muore per voi se vede che non riuscite a reagire. Mamma, capisco che certi momenti della tua vita sono veramente difficili da superare, ma non mollare mai, non dobbiamo permettere che questa malattia ci divida perché ho tanto bisogno di te.
Sara
Una diagnosi di Parkinson può essere già dura per se stessa, ma quando si hanno figli in giovane età (bambini piccoli o adolescenti) si presentano anche altre problematiche: come dirglielo? come reagiranno?
Alcuni consigli.
Alleviare l’ansietà con l’informazione
Lisa è una psicologa e sostiene che “i bambini percepiscono i cambiamenti del proprio genitore causati dalla malattia. Per questo non possono essere tenuti all’oscuro di quanto sta avvenendo intorno a loro. Il sapere che uno dei genitori è affetto dalla malattia di Parkinson (o da una qualsiasi altra malattia) può dargli una maggiore forza nell’affrontare i problemi che ne derivano”. “La mancanza di conoscenza genera ansia.” – continua Lisa – “I bambini hanno bisogno di fiducia e quindi avvertono la necessità di conoscere cosa accade in famiglia, soprattutto quando succede un accidente grave, come la malattia. Non sapere di cosa si tratta potrebbe far nascere in loro paure peggiori della realtà”.
Anche le notizie più gravi, una volta conosciute, alleviano l’ansia che l’incertezza crea. Le persone con la malattia di Parkinson hanno oggi migliori prospettive di un tempo.
Anche se ancora non c’è una cura definitiva, la ricerca non si ferma e continua a fare passi importanti verso la scoperta di terapie sempre più efficaci. Le informazioni sulla malattia, anche se difficili da spiegare, devono essere comunicate ai bambini infondendo loro speranza e sicurezza.
“…E – afferma Lisa – può essere anche un’occasione per riflettere insieme degli alti e bassi della vita tenendo sempre presente che occorre parlare ai propri bambini in modo appropriato e adeguato alla loro età”.
Rassicurare
Ciò di cui hanno più bisogno i bambini è di essere rassicurati. A Sandra è stata diagnosticata la malattia di Parkinson nel giugno 2003. Racconta della prima volta che ne parlò a sua figlia di 14 anni: “Era visibilmente scossa. Le dissi subito che non era qualcosa che mi stava uccidendo. Mi resi conto, allora, che ne era immensamente sollevata”.
Si raccomanda di fornire ai bambini rassicurazioni. Anche se le cose in futuro potranno essere un po’ differenti a causa della malattia, tranquillizzateli che continuerete ad amarli e ad avere cura di loro.
Naturalmente, è importante equilibrare l’ottimismo con la realtà e non fare promesse che non si possono poi mantenere. Si possono usare frasi del tipo: “Penso che sarò in grado di….; cercherò di…; spero di…”. Occorre inoltre spiegare ai bambini che il Parkinson non è una malattia infettiva e quindi né loro, né i loro amici, né gli altri familiari ne saranno contagiati. I bambini più grandi potrebbero essere anche preoccupati dell’eredarietà della malattia e quindi di svilupparla un giorno. Ma potete riassicurarli che ciò è improbabile che accada. L’odierna ricerca ritiene che le cause della malattia di Parkinson siano multifattoriali. Oltre la predispozione individuale, altri fattori giocano un ruolo importante per lo sviluppo della malattia, come ad esempio i fattori ambientali.
I bambini più piccoli hanno bisogno di sentirsi dire che nulla di ciò che hanno eventualmente fatto o detto o pensato può avere causato la malattia di Parkinson del proprio genitore. I bambini, affermano gli esperti dell’infanzia, credono di possedere poteri magici e che, in virtù di ciò, i loro desideri si possono realizzare. Per questo, alcuni di essi, possono ritenersi colpevoli quando le cose vanno male intorno a loro e credono, in qualche modo, di esserne colpevoli. Ma dire, ad esempio: “E’ una di quelle cose che a volte accade e non è colpa di nessuno”, può contribuire a sollevare il bambino dal suo senso di responsabilità.
Rispondere sempre alle domande
I bambini in tenera età imparano ripetendo. Non sorprendetevi quindi se vi chiedono ripetutamente le stesse spiegazioni. Ciò può essere frustrante per un adulto, in modo particolare se cercate di mantenere un atteggiamento positivo nei confronti dei vostri problemi.
La rassicurazione e la sincerità sono importanti per far accettare e comprendere ai bambini la malattia. Cercate quindi di essere disponibili a parlare ogni volta che vi porranno delle domande o sembreranno preoccupati per la vostra salute.
Considerare le differenze di età
Alcune considerazioni in rapporto all’età. Secondo lo psicologo: “Quanto e cosa dire ai bambini dipende dall’età e dal loro grado di maturità. I figli hanno esigenze diverse in base all’età ed inoltre le loro esigenze possono cambiare nel corso della malattia di Parkinson”.
Per questo può essere utile, soprattutto all’inizio della malattia e con figli di età diverse, parlare loro individualmente. In seguito potete parlare tutti insieme.
A un bambino di sei anni si può dire che una parte del cervello della mamma non sta “lavorando” come dovrebbe e per questo il suo movimento è strano, ma con le cure le sue condizioni potranno migliorare. Un adolescente invece può avere bisogno di informazioni più specifiche sulla malattia. Per spiegare meglio, si può leggere insieme dei testi che riguardano l’attività cerebrale e mostrare la parte del cervello che non funziona bene e quali conseguenze ne derivano dal punto di vista fisico. Ci sono diversi siti internet che forniscono informazioni a tutti i livelli sulla malattia di Parkinson. “Ho mostrato a mia figlia il sito della Fondazione Americana creata dall’attore Michael J. Fox” – racconta Sandra – “abbiamo parlato dei fondi impiegati nella ricerca per la cura della malattia di Parkinson. Questo ha rassicurato molto mia figlia”.
Considerare l’aiuto esterno
Secondo lo psicologo “a volte gli adolescenti possono trarre benefici dalla consulenza con professionisti esperti per superare il problema di avere un genitore che non è perfetto fisicamente”.
E’ importante inoltre informarsi se esistono nella vostra zona gruppi di sostegno per i malati parkinsoniani ed i loro familiari. Il supporto dello psicologo può aiutare ad elaborare una strategia di sostegno rispettosa delle caratteristiche psicologiche del paziente. Uno psicologo può anche aiutare a comunicare la diagnosi di Parkinson ai bambini quando è uno dei genitori ad essere ammalato.
Può essere di grande aiuto parlare con qualcuno che vive la stessa esperienza. Anche fare incontrare i bambini con altre famiglie dove vive una persona affetta dalla malattia di Parkinson può essere utile a far accettare meglio la malattia al bambino.
Può essere inoltre utile informare tempestivamente gli insegnanti della malattia del genitore. I loro suggerimenti e la loro comprensione potranno essere d’aiuto al bambino in caso insorgano problemi. Possono ad esempio aiutare vostro figlio concedendogli del tempo in più per svolgere i compiti a casa o dandogli una mano per risolvere le difficoltà a scuola, potrebbero suggerire un supporto psicologico.
I cambiamenti fisici
I bambini sono naturalmente curiosi – e perfino spaventati – dei cambiamenti fisici che la malattia di Parkinson può causare.
“I movimenti involontari (discinesie), il tremore, la difficoltà di movimento, i blocchi motori improvvisi, la posizione curva possono allarmare i bambini più piccoli” – sostiene lo psicoterapeuta – “ma quando questi disturbi sono spiegati in modo chiaro e comprensibile, la curiosità dei bambini è soddisfatta ed il timore diminuisce.”
Ecco alcune semplice frasi per spiegare ai bambini che i disturbi fisici sono associati alla malattia di Parkinson e agli effetti collaterali dei farmaci.
Freezing, “non arriva dal mio cervello il messaggio di spostare i piedi”;
Rigidità, “è come quando i muscoli sono doloranti dopo aver praticato molto sport”;
Posizione curva, problemi di equilibrio, i piedi trascinati, “se uso un bastone cammino meglio”;
Movimenti involontari o tremori, “le parti del mio cervello che trasmettono messaggi non funzionano sempre come dovrebbero. A volte può essere imbarazzante, ma questa è la situazione”.
Viso, “la mancanza di espressione del mio viso o la mia voce senza tonalità non significano assolutamente che sono triste o arrabbiato con voi oppure con altre persone”.
E’ bene ricordarsi che “nessun bambino – grande o piccolo che sia – riesce sempre a pensare alla vostra malattia. I giovani non sono spesso in grado di sopportare il fardello costante del dolore. Deve essere loro concesso di sbarazzarsene a volte e di scherzare con i loro amici come tutti i ragazzini”.
Melissa Ward – giornalista, esperta in problemi sanitari (Minneapolis) APDA – New York
In genere, una patologia come la malattia di Parkinson può procurare nella persona insicurezza ed incertezza per la perdita della gestione del proprio corpo.
Il malato di Parkinson può provare vergogna per la strana gestualità e per un corpo che è difficile da gestire volontariamente. Preferisce, conseguentemente, nascondersi attraverso l’isolamento limitando il più possibile le relazioni con l’esterno con conseguenti problemi relazionali che coinvolgono non solamente amici e familiari, ma anche il rapporto di coppia.
Si osserva spesso nel malato una sorta di “autoimposizione all’isolamento”. In questo contesto, le sensazioni di imbarazzo vissute dal malato, il desiderio di non pesare sugli altri e forse i sentimenti di vergogna legati alla visibilità e alla imprevedibilità dei sintomi parkinsoniani, possono alimentare la preoccupazione di non trasmettere un’immagine positiva di sé: “…mi infastidisce la gente che mi chiede perché tremo e questa situazione mi fa chiudere di più in me stesso”.
La malattia di Parkinson può quindi danneggiare l’immagine che ognuno ha di se stesso compresa la propria immagine corporea. La persona può arrivare a svalorizzare il proprio corpo non considerandolo più meritevole di un interesse affettivo.
Può allora accadere che i piccoli diverbi, le diverse vedute ed i normali scambi d’idee all’interno della coppia subiscano un’alterazione a causa delle problematiche derivanti dalla malattia e che la critica e il nervosismo procurino tensione tra i coniugi.
Sicuramente la malattia può “alterare” i rapporti tra i coniugi, ma la rottura irreversibile è nella maggior conflittuale.
I malati di morbo di Parkinson hanno inoltre un’incomprensibile tendenza ad essere egocentrici.
Trascorrono molto tempo e sprecano molta energia a pensare esclusivamente a loro stessi e sembra che si allontanino sempre di più dalla quotidianità che coinvolge il proprio partner e gli altri membri della famiglia.
La loro maggiore preoccupazione è rivolta al proprio stato emotivo e a tutti i cambiamenti che possono avvertire a livello fisico. Per mantenere, invece, l’amore nel matrimonio occorre mostrare dedizione costante verso il proprio compagno e favorire in ogni modo la comunicazione all’interno della coppia cercando di esplicitare sempre e comunque i propri sentimenti.
Come mantenere vivo il proprio rapporto di coppia?
I suggerimenti indicati sono rivolti alle persone affette dalla malattia di Parkinson e nascono dall’esperienza familiare:
– Fai sempre “il primo passo” per eliminare le tensioni che possono crearsi nel rapporto di coppia.
– Trova sempre nell’arco della giornata il tempo e il modo per dire al tuo lui/lei “ti voglio bene”. Può sembrare banale, ma è importantissimo farlo. Qualsiasi modo va bene per far capire alla persona che si ama quanto è importante per noi: bastano piccole attenzioni, una carezza, stringerle la mano, un abbraccio anche se, a volte, compiere questi gesti affettuosi può essere difficile a causa della rigidità causata dalla malattia di Parkinson.
– Non essere troppo esigente. Resisti alla tentazione di chiedere al tuo/alla tua compagna di svolgere per te quelle attività che ritieni pesanti.
Portale a termine autonomamente anche se ti occorre maggior tempo oppure chiedi un aiuto ad altri.
Questi piccoli regali di tempo possono ridurre notevolmente il rischio di stress a cui può andare incontro il tuo partner, già impegnato a svolgere numerose attività quotidiane.
– Incoraggia il tuo coniuge a mantenere i propri hobby, a praticare o a seguire i propri sport preferiti che oltre a dare gratificazione costituiscono un’importante valvola di sfogo per lo stress.
– Fai spesso complimenti al tuo partner. Ad ognuno fa piacere sentirsi dire qualche parola gentile. Riconosci apertamente le sue qualità, quelle che più ammiri e rispetti in lui/lei.
– Cerca di parlare degli argomenti che sono per tuo marito o per tua moglie importanti. Le persone amano discutere dei loro argomenti preferiti.
– Programmate insieme il vostro tempo libero come andare a fare una passeggiata, a far visita ad una persona amica… Per qualche particolare occasione (un compleanno, un anniversario…) prenota una cena al suo ristorante preferito oppure organizza qualche iniziativa che può fare felice il tuo compagno (o compagna) anche se non ti piace del tutto.
– Organizza delle sorprese. Ad esempio, è sempre gradito e sarà molto apprezzato da tuo marito o da tua moglie, ricevere bigliettini con pensieri affettuosi in occasione del proprio compleanno oppure per un anniversario o per il giorno di San Valentino ma anche in un giorno qualsiasi, la sorpresa avrà più effetto.
– Insieme con lo specialista rivaluta l’orario d’assunzione della terapia antiparkinson in modo da avere delle ore di buona motilità che coincidono con il tempo libero del tuo compagno (o compagna) per poter uscire con lui/lei, giocare a carte, vedere insieme la televisione. Non utilizzare i momenti di benessere fisico solamente per il lavoro o per fare delle commissioni e poi rimanere “bloccati” una volta che si è a casa.
– Esprimi sempre il tuo apprezzamento per ciò che fa il tuo partner, per i suoi pensieri gentili verso di te, qualsiasi cosa non è mai piccola. Anche se nel matrimonio la coppia dovrebbe condividere tutto, cerca di dare sfogo a molte delle tue paure e frustrazioni con qualcun altro che non sia tuo marito o tua moglie. Se è possibile, non caricare di ulteriori preoccupazioni il tuo partner. Anche lui ha bisogno di “distaccarsi” dalle problematiche familiari e di “tirare un po’ il fiato”. Solamente così lo aiuti a salvaguardare la sua forza fisica ed emotiva.
– Se commetti un errore, chiedi scusa per l’accaduto dicendo “mi dispiace”. Sembra facile, ma non è da tutti riuscire a farlo. Riconoscere di aver sbagliato richiede umiltà, coraggio e soprattutto intelligenza.
– Impara a perdonare. Cerca di dimenticare le arrabbiature del tuo compagno (o compagna) causate dai problemi provocati dalla malattia di Parkinson.
L’amore è anche e forse soprattutto capacità di perdonare. APDA – New York
Il termine tecnico mi definisce “caregiver”, figura sulla quale negli ultimi anni psicologia, sociologia e medicina stanno puntando sempre di più.
Io preferisco non definirmi proprio, non mi piacciono le etichette e quindi mi presento come Manuela, compagna di una persona affetta da malattia di Parkinson, in età cosiddetta giovanile, malattia che ha frenato, non distrutto, progetti e speranze.
L’argomento delle nuove terapie farmaco-logiche mi suscita sempre pensieri e ricordi ed ho deciso semplicemente di esprimerli, come in quelle strane sere tra amici in cui, chissà perché, si comincia a raccontarsi.
Mi è venuto in mente un dialogo di quando avevamo circa trenta anni:
“Ciao, è venuto il pediatra. La piccola ha le placche in gola… ha ordinato gli antibiotici… mi sono accorta solo dopo averli acquistati che sono da somministrare ogni sei ore… mannaggia quattro volte al giorno, con pure una sveglia notturna, per sette giorni! Ho paura di dimenticarmene: dobbiamo trovare un sistema per non scordarci l’orario”.
Poi mi sono ricordata di cinque anni fa, quando di anni ne avevamo circa quarantacinque:
“Amore, quanti farmaci ‘sto Parkinson! Pastiglie diverse a orari differenti: ho paura che ci dimenticheremo qualche pezzo!”. Le situazioni presentano un filo che le unisce: quello della paura di dimenticarsi, consapevoli che non attenersi alla prescrizione comporta il peggioramento.
Ma è il contesto in cui si sono svolte che è totalmente diverso: con la piccola il tempo dell’attenzione e della malattia erano brevi (dopo due giorni era già sfebbrata e dopo sette guarita), ora lo scandire del tempo e il rapporto con il farmaco sono la nuova condizione a tempo indeterminato con cui ci si deve approcciare allo “star male”.
Si, proprio allo “star male” e non alla malattia: la prima definizione la sento più vicina perché porta dentro di sé l’essere testimoni del disagio, del malessere e delle difficoltà dell’altro e nello stesso tempo il dover fare i conti con il proprio dolore emotivo.
E questa nuova condizione di vita richiede altri tempi e altri spazi: perché serve spazio di pensiero e tempo di rielaborazione per scegliere i nuovi comportamenti necessari a adattarsi ad una condizione di vita diversa.
Invece la malattia e i suoi farmaci bruciano tempo e spazio: la patologia avanza e l’assunzione tempestiva dei farmaci diventa obbligatoria.
Pastiglie, fiale e quanto altro necessario diventano il simbolo della prepotenza, la stessa con cui il Parkinson è entrato nella nostra vita.
Ma che cosa scatena nel nostro rapporto di coppia la massiccia presenza del farmaco?
Il nostro stare insieme ci ha visti percorrere spesso strade comuni ma anche cammini paralleli, rispettando quella necessità di autonomia individuale che ci ha permesso di sentirci uniti ma anche con una vita propria, quasi esclusiva.
Con qualche rinuncia e fatica personale eravamo riusciti a limare alcuni spigoli del nostro carattere e a trovare degli equilibri.
Ma ora c’è un rimescolamento: io ho amplificato il mio ruolo di prendermi cura di te e tu, velatamente, chiedi a me di farti da spalla nell’assunzione dei farmaci, nella condivisione del tuo star male…
A dirlo così, sembra che tutto vada bene: uno compensa l’altro… ma bisogna invece fare i conti con quelle frasi piene di significati nascosti che ci siamo lanciati ultimamente, magari perché eravamo soprattutto impauriti:
Tu a me: “non farmi da mamma!”. Io a te: “ricordati che io non ti faccio da balia!”.
Un pensiero conclusivo: le nuove terapie farmacologiche ci aiuteranno ad affrontare anche questi aspetti? Bell’interrogativo. Si è vero, forse non c’è una risposta, ma per parafrasare un vecchio proverbio “non si vive di soli farmaci”.
Manuela
Le prime impressioni possono essere ingannevoli
Quando informate per la prima volta i vostri bambini di essere affetto dalla malattia di Parkinson, è bene tenere presente che la loro reazione iniziale può essere ingannevole e che non è come sembra.
Nel 1993, Giovanna comunicò a suo figlio di 11 anni di essere ammalata di Parkinson.
“Abbiamo avuto una riunione di famiglia, dove ho fornito a grandi linee informazioni sulla malattia – inizialmente è preferibile non parlare di dettagli medici – e aspettavo delle domande. Mio figlio, però, era come sempre, allegro e spensierato. Ho pensato allora che niente avrebbe potuto interessarlo. Recentemente ho ricordato quella conversazione e mio figlio mi ha confessato che invece era realmente preoccupato ma che non voleva dimostrarlo e mi ha detto: “Mamma ero angosciato. Non sapevo che cosa fare””.
Come ogni genitore sa, i bambini non esprimono sempre ciò che pensano e questo vale maggiormente per gli adolescenti e per i giovani.
Sandra, i cui sintomi parkinsoniani sono abbastanza lievi da passare addirittura inosservati racconta, ad esempio, che all’inizio sua figlia non sembrava molto preoccupata.
“Ma più tardi ho saputo che aveva parlato con la mia migliore amica dicendo che il pensiero della mia malattia la faceva stare male e che era in ansia per la mia salute.”
La figlia di Sandra cercava di proteggere sua madre e temeva che se avesse espresso la sua sofferenza le avrebbe arrecato altro dispiacere. Nelle vostre conversazioni, è importante sollecitare i bambini di tutte le età ad esprimere sinceramente i loro sentimenti.
La disciplina
Ricordatevi che spesso i bambini possono comportarsi male per attirare l’attenzione quando si sentono trascurati.
Non allentare comunque la disciplina a causa dei vostri problemi di salute: “non è educativo e nei bambini si potrebbe rafforzare la convinzione che ci sia qualcosa di molto grave in famiglia”.
È importante mantenere delle regole precise e ragionevoli ed essere coerenti nel farle rispettare.
Fate capire ai vostri figli che hanno il vostro amore, la vostra comprensione ma che non siete disposti ad accettare la loro cattiva condotta. Premiateli quando si comportano bene e fate loro sapere che a causa delle nuove circostanze occorre collaborare in famiglia e quindi sarà molto apprezzata la loro disponibilità. Ricordategli che nemmeno prima era sempre tutto perfetto.
Parlarne anche con gli altri
Naturalmente, la necessità di informare della diagnosi della malattia di Parkinson deve essere estesa anche al di fuori della famiglia.
“Dovete essere onesti con i vostri bambini ed anche con i vostri amici”, sostiene Anna. Lei è una insegnante ed ha la malattia di Parkinson. Ha informato della malattia i suoi alunni di otto anni dicendo: “Sapete che ciascun organismo è differente l’uno dall’altro. Bene, il mio cervello ha qualche cosa di differente, non produce le giuste sostanze chimiche, così a volte mi blocco. Ignoratelo, non è un grande affare”. “Questo è tutto quello che hanno bisogno di sapere” – afferma Anna – “i bambini lo accettano e allora quando ho maggiori difficoltà motorie, mi aiutano (ad esempio, a trasportare delle cose) e questo li fa sentire molto utili”.
Maria, che si è sottoposta all’intervento di neuro-stimolazione profonda (DBS), è arrivata al punto di mostrare lo stimolatore, collocato sotto la clavicola, agli amici di suo figlio. “Mi hanno denominata mamma bionica. Invece, l’altra mia figlia, adolescente, non si è sentita a proprio agio di fronte a questo tipo di apertura, le dava fastidio che mi avessero attribuito un’etichetta di persona diversa, non naturale”.
Gli alti e i bassi della malattia
Vivere con il Parkinson significa che alcuni giorni saranno migliori di altri. Alcuni consigli pratici possono aiutare i bambini a fronteggiare gli inevitabili alti e bassi della malattia e a comprendere meglio che i suoi sintomi non sono sempre costanti.
I sentimenti
Se vi controllate e non mostrate che cosa provate, anche i bambini lo faranno.
Reprimere le emozioni non è giusto. I bambini possono avere paura dei loro stessi sentimenti invece di accettarli come normali. E’ naturale che siate tristi. Non abbiate paura di esprimerlo. Se riuscite ad esternare la tristezza e a piangere, vi accorgerete che la tensione si allenta. Se parlate dei vostri sentimenti potrà essere più facile per i vostri bambini esternare i loro persino quelli apparentemente proibiti come timore, vergogna, rancore. “Ma c’è differenza fra la rabbia che si prova perché la mamma è affetta dalla malattia di Parkinson e l’affetto che si ha verso di lei che porta ad aiutarla”- sostiene lo psicologo. “Un’altra regola pratica è ascoltate, ascoltate, ascoltate… sempre i vostri bambini”.
Accettarsi
Sappiamo che un atteggiamento positivo ha effetti sulla nostra salute mentale e fisica.
Mantenersi calmi ed accettare la malattia può aiutare a mantenere buoni rapporti relazionali all’interno della famiglia. Se il padre con la malattia di Parkinson protesta costantemente o è confuso, i bambini ne risentiranno e si comporteranno nello stesso modo.
Naturalmente, non è che si deve essere sempre su di spirito però, certamente, mantenersi di buon umore aiuta.
Giovanna ritiene che per vivere bene con il Parkinson è necessario anche riderci un po’ su.
“Una volta stavo preparando la cena ed il mio braccio ha iniziato a tremare. Avevo in mano un coltello e tagliavo le patate. Abbiamo fatto tutti una bella risata. E’ bene rimanere positivi”.
Non nascondete alla famiglia quello che vi sta accadendo. Ciò si potrebbe ripercuotere contro di voi. L’avere bisogno dell’assistenza pratica, sia quotidianamente sia occasionalmente, comporta la necessità di informarne le persone che vi sono vicine.
“Quando si verificavano dei periodi off, mi ritiravo nella mia stanza, lontano dalla mia famiglia”, racconta Enrico. “Ma era un grande errore, perché i miei familiari così non si rendevano conto di ciò che mi accadeva”.
Massimo ha avuto un intervento chirurgico di DBS.
Si è ammalato di Parkinson nel 1990.
“Ho spiegato ai miei bambini il tipo di intervento chirurgico e dopo l’intervento gli ho fatto vedere la cicatrice e dove era stato posizionato lo stimolatore.
Non ho avuto paura di mostrarglieli. E’ sicuramente meglio informarli che farli vivere nelle fantasie che nascono dal non sapere. La visita di controllo che effettuo annualmente presso l’Ospedale comporta lo spegnimento dello stimolatore per 24 ore. Quel giorno i miei bambini lo chiamano “il giorno in cui lo stimolatore è più apprezzato”.
Si rendono conto che sono quasi catatonico se lo stimolatore non è attivo e, quindi, quanto la tecnologia è importante per il mio benessere”.
Massimo è un fautore dell’intervento di neurostimolazione profonda che ha migliorato la qualità della sua vita e lo raccomanda ad altri malati. “Alle visite di controllo a volte ho portato anche i miei bambini che conoscono molte persone con il Parkinson e questo li aiuta a comprendere meglio la malattia”.
Gli aspetti positivi
Certamente la vita si presenta più complicata dovendo fronteggiare le difficoltà della malattia di Parkinson e nello stesso tempo crescere i propri bambini. Ci sono, però, alcuni aspetti positivi.
I bambini crescono con maggiore sensibilità.
A causa della malattia, i vostri figli possono diventare più indipendenti ed acquistare più fiducia in loro stessi, diventare più responsabili, più sensibili alle esigenze altrui e più capaci di comprendere ed amare gli altri.
Luisa si rende conto che i suoi bambini hanno un atteggiamento molto disponibile verso gli altri, si preoccupano e non giudicano le persone: “Nei confronti della persona malata vedo che i miei bambini anticipano i suoi bisogni e l’aiutano spontaneamente. Sono consapevoli delle sue necessità.”
Maggiore responsabilità
Generalmente, i figli si rendono utili in casa, sbrigano anche alcune faccende domestiche che il proprio genitore parkinsoniano non si sente più di fare.
Quando il marito di Michelle è fuori città, il figlio più grande aiuta la sua sorellina a mettersi le scarpe, ad abbottonarsi la camicetta.
I bambini imparano ad essere più indipendenti. Michelle racconta: “I miei figli si preparano da soli anche alcune pietanze e sono molto attenti a non fare sprechi in cucina”.
Giovanna ha visto i cambiamenti dei suoi bambini. “Mia figlia è diventata più indipendente. Si occupa della casa e certamente se non mi fossi ammalata di Parkinson queste cose non li avrebbe mai fatte. Penso che quanto mi è successo l’abbia resa una persona migliore”.
Le abbiamo chiesto: “A sua figlia hanno pesato queste maggiori responsabilità?”.
“All’inizio probabilmente si, ma ora che è adulta si rende conto che questa esperienza, sebbene dolorosa, l’ha maturata”. Giovanna ha iniziato ad avere episodi di freezing dopo circa due anni dalla diagnosi di malattia.Suo figlio è sempre disponibile ad aiutarla quando la sente chiamare, quando ad esempio ha difficoltà a scendere dal letto. “Viene e mi porta la pillola. Mi dice che gli è di aiuto sapere di essere utile”. Lisa racconta che anche a suo figlio piace sentirsi utile ma afferma: “E’ necessario però lasciarlo essere un bambino”.
Lo psicologo è d’accordo con Lisa. “Attenzione, è importante non caricare di troppi compiti i bambini. Senz’altro è bene che imparino ad essere responsabili, ma hanno bisogno di sentirsi bambini, di avere degli amici, di divertirsi, di praticare degli sport. Devono poter crescere vivaci e spensierati come tutti gli altri ragazzi. Sono bambini e come tutti i bambini hanno bisogno di giocare”.
I bambini devono essere responsabilizzati in modo adatto alla loro età senza gravarli di troppi doveri. Un segreto per affrontare la malattia sta nel sapere condividere con gli altri le emozioni, senza paura, con serenità.
Potrete stupirvi ed essere fieri della capacità dei vostri bambini di affrontare i problemi e di trovare nuove soluzioni.Tutta la vostra famiglia scoprirà di fronte alle difficoltà di possedere insospettate riserve di amore e di forza interiore.
Affrontare il problema tutti insieme può dare ai bambini l’opportunità di conoscere e apprezzare il valore della famiglia.
Melissa Ward – giornalista, esperta in problemi sanitari (Minneapolis) APDA – New York
PREMESSA
Tradizionalmente la terapia di gruppo nel trattamento delle malattie psichiatriche è un approccio ormai largamente diffuso, come si può vedere nei casi delle dipendenze, del disturbo ansioso-depressivo, disturbi del comportamento alimentare.
Risulta invece innovativo l’utilizzo di tale modalità terapeutica nelle malattie neuro-psichiatriche, quale è ormai riconosciuto essere il morbo di Parkinson, come pure il riconoscimento dell’importanza dell’integrazione tra neurologia, psichiatria e psicologia clinica, in modo armonico e simbiotico.
In generale, l’utilizzo del trattamento di gruppo parte dalla consapevolezza che l’esistenza umana non è solo un essere nel mondo, ma anche un essere con gli altri; un Io isolato non è mai dato in quanto, in maniera originale e costitutiva, l’esistenza è apertura verso il mondo e verso gli altri (Heidegger, 1969) e da una riflessione più ampia sul concetto aristotelico dell’uomo inteso come animale sociale “zoon politikon”.
Ed è proprio nel contatto relazionale che l’uomo traccia i suoi confini e delimita le sue dimensioni emozionali ed affettive, con l’aiuto di queste interazioni.
E’ nel contatto nel diverso da Sé che l’uomo trova se stesso, nel luogo dove l’Io riesce ad unire la sua creatività ed unicità con l’adattamento sociale.
Via depressione
L’elemento comune a tutti gli approcci di gruppo è il riconoscimento del potere curativo della relazione con gli altri, il “ripristino dei vincoli sociali”, che vede come punto di partenza il superamento della solitudine e dell’isolamento (Herman, 1992).
Tale momento può essere visto come una desiderata sosta dall’isolamento, dalla solitudine, dalla “ghettizzazione” e come una forza più compatta per gestire le problematiche della malattia, con l’arricchimento del sostegno e del confronto.
Il pensiero psicoanalitico sostiene che il gruppo soddisfa “il bisogno universale di appartenenza e della necessità di instaurare una condizione di unità psicologica con gli altri, che rappresenta il desiderio nascosto di ristabilire un primigenio stato di benessere incontrastato inerente all’unione esclusiva con la madre” (Tuttman), il “non confermare la sensazione di unicità….” ed il “benvenuto nell’esperienza della stirpe umana” (Yalom, 1983).
Il Sé come prodotto dell’interazione sociale porta nella sua distinzione dell’”altro da Sé”, la figura materna, alla formazione dell’Io, che è la componente implicita del Sé.
Dopo l’Io si forma il Me, la componente esplicita, che rappresenta la coscienza di come il Sé è visto dagli altri (Mead G.H.).
Il Morbo di Parkinson è una malattia cronico-progressiva, caratterizzata per lo più da acinesia, rigidità e tremore. Sono disponibili terapie farmacologiche sintomatiche, la cui efficacia si riduce nel tempo e induce frequenti e invalidanti effetti indesiderati.
Il sostegno psicologico si inserisce come terapia utile negli aspetti di comorbidità psichiatrica, frequentemente presenti, come punto di forza nella gestione delle situazioni stressanti, come necessario miglioramento della qualità di vita del malato.
IL COPING COME INTERVENTO UTILE DI ADATTAMENTO ALLA MALATTIA
Si è cercato di sviluppare nei soggetti componenti il gruppo il coping: “tentativi che variano di continuo, sia intrapsichici che volti all’azione, per controllare gli eventi valutati come gravosi o superiori alle proprie risorse” (Lazarus e Folkman, 1984), utilizzando, con adattamenti situazionali sia il coping centrato sul problema: diretto a controllare e/o a modificare il problema dell’accettazione della malattia (informazione e preparazione di strategie adeguate alla miglior risoluzione del problema); sia quello centrato sull’emozione: diretto a controllare l’emozione, nel tentativo di migliorare l’accettazione della malattia (fattori sociali di distrazioni, atteggiamenti ottimistici ed umoristici), lavorando sulle condizioni che lo favoriscono:
a) provenienti dalla persona
– attitudine a risolvere i problemi: capacità di analizzare le difficoltà e trovare il modo giusto per superarle;
– attitudine sociale: capacità di comunicare e di avere relazioni sociali adeguate e soddisfacenti;
b) legate alla personalità del soggetto
– ottimismo: capacità di vedere il lato positivo delle cose e maggior spensieratezza nell’affrontare i problemi;
– sede del controllo interna: maggior tenacia nel raggiungere un obiettivo, utile per il coping centrato sul problema;
– amore per la novità e l’avventura: tale caratteristica è utile per affrontare con maggior sicurezza le situazioni di stress, quali le malattie;
– forza dell’Io: miglior adattamento psicologico e miglior capacità di affrontare le situazioni difficili;
– senso dell’umorismo: vedere il lato comico di una situazione aiuta a valutarla in modo meno minaccioso;
– esistenrza: impegno, tendenza ad individuare le proprie capacità ed obiettivi;
– fiducia nel controllo e nel dominio dell’ambiente esterno;
– amore per l’innovazione, desiderio di avere una vita piena di esperienze interessanti;
c) provenienti dall’ambiente esterno:
– risorse materiali;
– appoggio sociale: sviluppare una rete relazionale da cui ricevere informazioni o aiuto emotivo.
FASI PSICOLOGICHE NELL’APPROCCIO CON LA MALATTIA
Partendo dall’esperienza del gruppo di sostegno realizzato, nell’approccio con la malattia si osserva l’evolversi delle seguenti fasi psicologiche:
NEGAZIONE: il malato rifiuta che l’evento della malattia possa aver colpito proprio lui (meccanismo di difesa) e la mancata accettazione porta ad un conseguente isolamento psicologico.
In tale fase il paziente non richiede spontaneamente un intervento psicologico. si presentano difficoltà nel raggiungimento dell’alleanza terapeutica;
COLLERA: il malato può mostrarsi irritato o scostante verso le persone vicine: familiari, amici, psicologo, coordinatore del gruppo di sostegno, che ritiene più “fortunati”.
Anche in questa fase il rischio dell’isolamento è molto elevato e la collaborazione del paziente è ancora scarsa;
CONTRATTAZIONE: il malato abbandona la collera e cerca di migliorare la sua qualità di vita.
Assume atteggiamenti più benevoli verso i familiari e, nell’intervento psicologico, assume un atteggiamento collaborativo;
DEPRESSIONE: il paziente comprende di aver ridotte le proprie abilità e potenzialità di vita ed entra in un doloroso processo di rassegnazione per la perdita delle cose passate, che non riesce più a vivere nel presente.
Pur consapevole della necessità del sostegno psicologico, si riduce nel paziente la forza di volontà, le energie e l’adesione terapeutica;
ACCETTAZIONE: tale atteggiamento subentra in una fase avanzata della malattia.
Il paziente abbandona la collera e la depressione, per raggiungere una serena rassegnazione.
Con l’aiuto del sostegno psicologico e del gruppo, è importante stimolare il paziente ad interessi ed iniziative miglioranti la sua qualità di vita.
APPLICAZIONE DELLO STILE MOTIVAZIONALE ALLA DINAMICA DI GRUPPO
Nella realizzazione del gruppo, per migliorare i risultati e l’efficacia dello stesso, si è utilizzato lo stile motivazionale, nelle seguenti modalità:
Creare empatia al gruppo:
a) creare un’atmosfera di sostegno, centrata sui pazienti, esplorando i loro conflitti e difficoltà;
b) sviluppare un ascolto riflessivo ed un’atmosfera di accettazione e di comprensione che permetta il miglioramento del Sé e delle proprie capacità adattive alla malattia;
Evitare contrapposizioni: ridurre al minimo il livello di resistenza del paziente, per favorire il cambiamento (in opposizione con le tecniche confrontazionali), progettando un piano d’azione condiviso;
Aggirare ed utilizzare le resistenze: stimolare nel paziente nuove percezioni del Sé, utilizzando l’attivazione delle energie del paziente, dettate dalla resistenza al cambiamento, per aprire il paziente a nuovi percorsi di vita;
Ampliare le fratture interiori: stimolare il paziente ad arrivare alla consapevolezza della discrepanza tra come si percepisce e come vorrebbe essere, esplorando i propri valori ed obiettivi (come vorrebbe essere) e confrontandoli con la condizione presente (come si percepisce) permette di ottenere spunti di miglioramento;
Sostenere l’auto-efficacia (Bandura): sviluppare nel soggetto una sempre maggior fiducia nella propria capacità di stabilire un comportamento prestabilito migliora le capacità adattive alla malattia.
– attitudine a risolvere i problemi: capacità di analizzare le difficoltà e trovare il modo giusto per superarle;
– attitudine sociale: capacità di comunicare e di avere relazioni sociali adeguate e soddisfacenti;
CARATTERISTICHE E SCOPI DEL GRUPPO
Il gruppo aperto, organizzato da una psicologa con la supervisione di uno psichiatra e psicoterapeuta, è composto da 8/10 partecipanti, uomini e donne, di età compresa fra i 40 ed i 75 anni, affetti da morbo di Parkinson (MP) in stadi diversi della malattia e dai loro familiari ed è strutturato in una serie di incontri settimanali della durata media di 80 minuti circa da tre anni e mezzo.
Il percorso di sostegno si è tracciato sull’analisi di quattro aree, con lo scopo di migliorare l’equilibrio personale del soggetto:
1) la regolazione dell’affettività;
2) la cura e l’amore verso se stessi;
3) il rapporto con gli altri;
4) l’autostima.
Si è reso necessario offrire ai soggetti malati ed ai loro familiari un luogo per rielaborare il senso e gli scopi della loro vita, modificata dall’avvento della malattia, stimolando e motivando il loro forte bisogno di rinnovamento e la loro esigenza di nuovi modelli comportamentali.
Nel gruppo si è infatti evidenziato le necessità di:
– dare un senso ai nuovi ruoli dei soggetti aderenti ai gruppi nei loro contesti familiari;
– valorizzare i soggetti, cercando di motivarli all’utilizzo delle abilità ancora possedute e a sostituire attività motorie con attività intellettive e creative;
– permettere ai soggetti di uscire dall’isolamento, che la malattia e la sua cura implica, ricominciando a desiderare;
e l’obiettivo di:
– analizzare, riflettere e rinnovare l’immagine del soggetto parkinsoniano negli stili mentali e comportamentali emotivo-relazionali degli stessi partecipanti al gruppo, affiancati dai familiari.
Il programma si è articolato in più fasi:
– Training assertivo
– Training di rilassamento
– Neuroriabilitazione della memoria
– Poesiaterapia.
La prima parte del programma si è svolta attraverso feed-back personali basati sull’espressione dei propri sentimenti e sulla comunicazione dei propri vissuti ed esperienze di vita e di malattia, in rapporto ad un tema trattato in modo flessibile ed individuato in ogni incontro.
Supporto fondamentale per la parte iniziale dell’intervento è l’analisi e l’approfondimento della “Carta dei diritti personali”, ispirandosi alla quale il gruppo e la psicologa hanno scelto i temi da trattare.
Ogni diritto opportunamente personalizzato ha dato la possibilità ai partecipanti di comprendere se stessi, in un percorso di miglioramento dello stile comportamentale, in un utile tentativo di passaggio da uno stile di comportamento passivo o passivo aggressivo ad un comportamento più assertivo, aiutati dalla consapevolezza dei propri diritti e di quanto questa acquisizione possa favorire la crescita dell’Io.
CONDIVISIONE DEI PROBLEMI
La condivisione dei problemi ha aiutato i componenti del gruppo a superare le difficoltà quotidiane motorie e non, ma anche a cercare modalità più efficaci di affrontare i problemi, dimostrando l’aiuto dell’espressività verbale nel superamento degli stessi.
Lo sforzo dei soggetti di esplorare le proprie modalità di relazioni interpersonali sia all’interno che all’esterno del gruppo, ha permesso di migliorare le dinamiche del gruppo e di migliorare l’espressività della propria sofferenza emozionale e anche la non accettazione del corpo reso “diverso” dalle conseguenze negative della malattia.
Si è cercato di insegnare ad accettare anche le tematiche depressive, che sono affiorate ed in seguito contenute, a saper ascoltare il pianto e la disperazione, in un percorso di raggiungimento della coscienza del Sè.
Con il tempo, la crescita personale dei singoli soggetti ha permesso loro di proporre un proprio contributo attivo e partecipato alla crescita collettiva ed il sostegno degli altri ha consolidato la consapevolezza dei propri sentimenti, stati d’animo, bisogni e desideri ed una loro sana espressione creativa.
La comunicazione intragruppo ha permesso il superamento dei bisogni primari e l’individuazione di parametri di auto-realizzazione, incrementando l’auto-efficacia.
La conoscenza di se stessi e dell’importante contenuto che il soggetto malato può superare le barriere autoimposte dei propri limiti personali e che oltre ai propri bisogni vitali ed alla propria traduzione corporea, il soggetto può esprimere la sua funzione personalità, ovvero la rappresentazione che il soggetto fa del proprio Sé e la sua funzione decisionale di scelta rispetto alle richieste ed alle pulsioni provenienti dall’ambiente familiare e da quello esterno ha portato ad un’interazione al fine auto-conservativo e di sviluppo armonico dell’Io.
RIDUZIONE VOLONTARIA DELLA TENSIONE (MUSCOLARE E PSICOLOGICA)
La seconda parte del programma permette una riduzione volontaria della tensione. La tensione può essere fisica (muscolare) oppure può essere mentale o psicologica.
Il rilassamento ha lo scopo di modificare la natura dei segnali inviati dal cervello alla periferia del corpo e viceversa. Per effetto della continua interazione tra corpo e mente, la sensazione di calma che deriva dal rilassamento è sia di tipo fisico, che psicologico o mentale.
La metodica di rilassamento più efficace nella malattia di Parkinson e utilizzata nel programma terapeutico è stato: il rilassamento progressivo del fisiologo statunitense Edmund Jacobson.(1964) a carattere fisiologico e analitico.
Con esso si considerano i singoli fasci muscolari ad uno ad uno esercitandoli, ad un alternarsi di contrazione e distensione.
Così il soggetto apprende a distinguere chiaramente le sensazioni legate allo stato di tensione muscolare ed a quello di riposo, e si utilizza la distensione muscolare per ridurre l’eccitabilità cerebrale.
L’allenamento è di tipo fisico e mentale: la contrazione e la decontrazione della muscolatura delle varie parti del corpo è accompagnata dall’attenta osservazione delle sensazioni psicologiche prodotte dall’azione fisica, utilizzando una buona respirazione diaframmatici e acquisendo una sempre maggior conoscenza del proprio corpo, degli aspetti psico-fisici e viscerali, riducendo la tensione e la rigidità muscolare e il tremore, sintomi fastidiosi della malattia e causa di fobia sociale.
NEURORIABILITAZIONE DEI DEFICIT MNESICI
La terza parte del programma riguardante la neuroriabilitazione dei deficit mnesici dovuti alla malattia si è concentrata sul miglioramento o la conservazione delle abilità mnesiche e l’utilizzo della memoria immediata e differita e delle fasi del processo di memorizzazione, fissazione e ritenzione e rievocazione.
Scopo è quello di migliorare le abilità di memoria di cifre in soggetti parkinsoniani non dementi.
Dopo la somministrazione del subtest Memoria di Cifre del test Scala d’Intelligenza per Adulti di Wechsler Rivista (W.A.I.S.-R), il gruppo ha lavorato cercando di migliorare le capacità di memoria mediante l’utilizzo di esercizi di ripetizione diretta ed inversa, da scriversi in un quaderno con difficoltà progressivamente in aumento.
Gli esercizi consistevano nel memorizzare numeri utili per la vita dei pazienti, tra cui l’emergenza sanitaria, vigili del fuoco, polizia ed i numeri di familiari ed amici più vicini alla vita del soggetto, seguendo un approccio ecologico.
La socializzazione e l’aiuto reciproco nella risoluzione degli esercizi ha portato a risultati soddisfacenti (retest Memoria di Cifre della Scala d’Intelligenza di Wechsler per Adulti), migliorando l’autostima dei soggetti nell’apprendimento comune di strategie mnesiche.
MEZZI ESPRESSIVI E COMUNICATIVI DELL’ARTE POETICA
La quarta parte si è concentrata sull’utilizzo di mezzi espressivi e comunicativi dell’ arte poetica.
Il percorso terapeutico si è sviluppato attraverso la lettura, l’interpretazione di poesie scritte da autori famosi e da pazienti del gruppo.
L’area artistica diventa area intermedia tra la realtà soggettiva di ciascuno e la realtà oggettiva che ci circonda, area che aiuta a mettere in comunicazione e a collegare l’esterno con l’interno, creando un adeguato equilibrio tra la sfera emozionale e razionale dei soggetti.
Questo metodo ha favorito il crearsi di un giusto spazio di comprensione, condivisione e accettazione della
malattia e delle difficoltà conseguenti in un contesto relazionale e comunicazionale soddisfacente. L’espressione attraverso l’arte poetica di quegli aspetti affettivi-emotivorelazionali sommersi ha permesso ai pazienti di esprimere la parte più profonda, autentica, creativa del Sé, generando energie positive, vitali e motivazionali utili al recupero di un significato progettuale e valoriale del senso della vita. L’aumento dell’autostima ed autoefficacia dei soggetti è stato possibile attraverso la “reminiscenza” del passato, il controllo del presente e la ricostruzione del futuro con l’aiuto dei ritmi e dei tempi della forma poetica.
IL RUOLO DELLA PSICOLOGA
La psicologa ha seguito il percorso di :
– offrire input di lavoro ai partecipanti al gruppo, in merito alle diverse tematiche individuate con stimoli propositivi;
– intervenire all’interno delle dinamiche relazionali riguardanti vissuti riportati dal soggetto o dal gruppo;
– offrire la possibilità al gruppo di ricordare la memoria passata da riferirsi al contesto premorboso allo scopo di un armonico confronto con un presente, di cui si è cercato di aumentare la sopportazione e la tollerabilità;
– prospettare visioni evolutive in rapporto alle situazioni problematiche proposte;
– collocarsi all’interno del gruppo sia come elemento facilitatore della comunicazione sia come soggetto empatico, fornitore di mediazione relazionali, utili allo sviluppo progressivo di un clima comunicativo improntato alla flessibilità ed alla capacità autorealizzativa.
SINTESI ED EFFICACIA DELL’ESPERIENZA
L’obiettivo generale è stato quello di creare un clima supportivo, nel quale i soggetti possano con facilità esplorare le conflittualità interiori e superarle con una comprensione accurata ed un atteggiamento empatico, un ascolto riflessivo ed un’accettazione priva di giudizi e critiche, che possa stimolare il cambiamento.
Lo sforzo successivo deriva dall’aiutare il soggetto a ritrovare nel Sé nuove percezioni più positive e rassicuranti, senza obiettare e ribattere ed utilizzando la resistenza terapeutica al fine di raggiungere nuove soluzioni di vita.
L’utilità di lavorare sulla frattura interiore e sulla discrepanza tra “come sono” e “come vorrei essere”, permette di esplorare i propri vissuti, creando un anello di congiunzione valido ed efficace con il presente e con le proprie priorità.
Il percepire la frattura interiore infatti è una spinta motivante al cambiamento e permette di esaminare dall’interno del soggetto i propri valori esistenziali, per comprenderli ed esaminarli, con il confronto con gli altri.
Si è cercato di mantenere bassi i livelli di resistenza del soggetto ed abituarli ad affrontare le difficoltà, senza minimizzarle, ma con il convincimento di riuscire a conseguire gli obiettivi, che il soggetto ha rielaborato insieme alla psicologa ed al gruppo.
Il gruppo diventa testimone degli obiettivi di miglioramento e della loro realizzazione, in uno spirito di solidarietà e di comunanza, che si rivela stimolante.
In sintesi, dagli scopi prefissati nell’esperienza di gruppi di sostegno:
– Evidenziare la presenza di nuclei psicopatologici che ostacolano o impediscono la partecipazione e lo sviluppo di un lavoro di gruppo migliorativo;
– Recuperare le abilità sociali e migliorare la socializzazione;
– Dimostrare al gruppo l’utilità del riconoscere le proprie emozioni e dell’esprimerle attraverso mezzi verbali e non;
– Promuovere abilità interpersonali nell’aiuto, nella comprensione e nell’ascolto reciproco;
– Imparare ad esprimere sentimenti e pensieri positivi.
Abbiamo raggiunto i seguenti obiettivi:
– Miglioramento nella condivisione di modalità efficaci di problem-solving;
– Approfondimento di informazioni sulla malattia, sulla sua evoluzione e sulle sue possibilità terapeutiche, favorendo l’adesione terapeutica al farmaco;
– Apertura alla condivisione delle esperienze sulla malattia;
– Miglioramento delle capacità adattive del paziente all’ambiente e alla malattia;
– Esplorazione delle proprie modalità di relazioni interpersonali sia verbali, che non verbali, all’interno e all’esterno del gruppo;
– Modifica delle strategie interpersonali inadeguate;
– Analisi dei diritti personali, ricercando un comportamento più assertivo;
– Riduzione della fobia sociale e del disagio emozionale rispetto alle difficoltà motorie;
– Sviluppo di capacità creative ed espressive. Il basso drop-out fa comprendere l’atteggiamento partecipativo del gruppo, che ha potuto migliorare la comunicazione, la consapevolezza personale intrafamiliare ed extrafamiliare delle problematiche relative alla malattia, in uno spazio esterno di condivisione e di crescita personale del proprio mondo interiore.
Il medico di Medicina Generale lavora in una posizione particolare perché è sia dispensatore di cure per ogni suo assistito che deputato a richiedere esami di approfondimento e l’intervento dello specialista quando lo ritenga necessario.
E’ responsabile in prima persona della salute del suo paziente ma è anche un ponte, un tramite tra il malato e lo specialista.
Quando una persona ritiene che il suo stato di salute o di benessere sia venuto meno, quando avverte un malessere, un disturbo nuovo generalmente si rivolge innanzitutto al proprio medico di famiglia.
Il morbo di Parkinson esordisce lentamente, in modo insidioso, con vari sintomi, per cui il paziente può recarsi dal medico di famiglia per diversi disturbi, perché infastidito da un fine tremore alle mani o più spesso a una mano sola, perché sente che le gambe sono diventate dure e pesanti, perché cade facilmente, per una sintomatologia dolorosa agli arti inferiori o alla spalla, perché la voce è diventata flebile e la parola si inceppa, perché la calligrafia è diventata illeggibile per una scrittura irregolare e insicura, per una sintomatologia di tipo ansioso-depressivo o una maggiore affaticabilità.
In altri casi è accompagnato dai familiari che hanno notato cambiamenti nelle normali attività quotidiane come difficoltà nel vestirsi o nel lavarsi perché l’esecuzione del movimento è rallentata. Oppure è il medico stesso che conosce la persona da tempo a notare un passo più lento, un’andatura più incerta flessa in avanti, un’espressione più triste sul viso meno espressivo.
Quando il medico di famiglia propone una visita neurologica si crea inevitabilmente una reazione di allarme perché l’intervento di uno specialista conferma l’esistenza di un problema serio che richiede un approfondimento della diagnosi.
Il lavoro del medico di famiglia è difficile perché deve gestire le ansie che un’alterazione dello stato di salute crea e nello stesso tempo deve avviare il paziente all’assistenza più qualificata a cui ha diritto. Quando il neurologo ha espresso la diagnosi, il malato ritorna all’ambulatorio del medico di Medicina Generale ancora più spaventato e con molte domande sulla terapia, sulla prognosi.
Si crea la necessità di verificare la comprensione di quanto detto dallo specialista sulla diagnosi e sulla modalità di assunzione dei farmaci.
Il paziente deve poter fare molte domande e ricevere risposte adeguate: per accettare la sua malattia la deve conoscere. Spesso i farmaci usati nel morbo di Parkinson danno all’inizio della cura spiacevoli effetti collaterali: nausea, vomito, agitazione. In tali casi il paziente e i familiari potrebbero decidere di interrompere la cura e solo col supporto del proprio medico si possono accettare per qualche giorno gli effetti collaterali per poi vedere i vantaggi terapeutici.
La Levodopa è più efficace se assunta a stomaco vuoto, ma così dà più facilmente nausea e vomito; si può allora decidere insieme di assumerla vicino ai pasti purché si limiti l’apporto di proteine (AA) col cibo. Anche pasti troppo ricchi di grassi, rallentando lo svuotamento gastrico, possono diminuire l’assorbimento del farmaco, per cui si consiglia una dieta equilibrata.
Generalmente, nel corso degli anni, il dosaggio dei farmaci deve essere aumentato ma così possono insorgere discinesie (movimenti involontari incontrollabili) o blocchi del movimento in certe ore della giornata, per cui il paziente viene invitato a tenere un diario delle sue capacità motorie per regolare meglio il dosaggio e i tempi di assunzione dei farmaci.
Quando i dosaggi della Levodopa sono elevati può essere necessario sbloccare i recettori del farmaco diminuendo temporaneamente il dosaggio: così si crea un temporaneo peggioramento delle capacità di movimento vissuto sempre con molta angoscia dal paziente ma in questo modo si pongono le premesse per una ripresa dell’efficacia della cura.
Risulta evidente quindi come la terapia del morbo di Parkinson non sia sempre uguale per tutti i pazienti ma debba essere personalizzata perché anche piccoli cambiamenti di dose e di orario possono migliorare molto la risposta ai farmaci.
Il medico di famiglia ha un rapporto quotidiano col paziente e può quindi aiutarlo a superare le difficoltà evidenziando o ascoltando il problema e proponendo dei cambiamenti, ma anche facendo sì che il paziente diventi interlocutore attivo e consapevole.
Il medico deve saper accogliere e condividere le ansie del paziente, usare tutte le sue conoscenze per curarlo ma anche coinvolgerlo nella coscienza della sua malattia.
Oggi internet offre molte informazioni a tutti su ogni argomento, ma le informazioni di carattere medico sono molto spesso mal interpretate da un profano. Io credo che sia utopistico pensare che il malato oggi non debba attingere le notizie dalle numerose fonti che ha a disposizione, ma che debba poter parlare col proprio medico di quanto ha letto su internet per capire meglio la sua malattia in un rapporto di piena fiducia in chi lo cura.
La malattia mette di fronte a situazioni di perdita di capacità, di funzioni, di ruolo sociale, con la necessità di un ridimensionamento dei propri progetti di vita. L’aggravamento crea problemi psicologici soprattutto nel soggetto giovane perché cambia il suo ruolo lavorativo e sociale e nella famiglia che vive un momento di crisi e deve trovare la capacità di riadattarsi ad una nuova esperienza che rende necessario ridefinire i ruoli. Anche qui il medico di famiglia può intervenire perché talvolta i famigliari rifiutano di accettare la malattia negandola o colpevolizzando il malato per ciò che non sa fare oppure diventano troppo protettivi: volendo evitare al malato ogni turbamento lo mettono da parte quando si devono prendere decisioni importanti emarginandolo o facendolo ritornare bambino.
L’obbiettivo è quello di far mantenere al malato la sua indipendenza il più a lungo possibile aiutandolo ma non precedendolo nelle sue azioni. Talvolta il paziente col morbo di Parkinson ha solo bisogno di più tempo perché deve fare uno sforzo per iniziare qualunque movimento che deve essere pensato e voluto.
Non si può far fretta a un paziente parkinsoniano, bisogna “avere tempo e dare tempo”. La voce è flebile e le parole scandite con fatica e talvolta sussurrate. Non si può parlare in fretta a un paziente parkinsoniano; se si vuole dialogare con lui bisogna mettersi sulla sua lunghezza d’onda.
La depressione colpisce spesso chi ha il morbo di Parkinson come pure disturbi d’ansia o fobia sociale che si mascherano spesso dietro ad un volto scarsamente espressivo che tende a nascondere il vissuto emotivo che è molto intenso e richiede molta comprensione e uno sforzo comunicativo.
Concludendo, il paziente con morbo di Parkinson deve essere certamente seguito dallo specialista neurologo che deve collaborare col Medico di Medicina Generale che ha un rapporto più confidenziale e continuo col malato, che conosce complessivamente lui e la sua famiglia, che può fare da tramite e da interprete delle prescrizione specialistiche.
Con una stretta collaborazione tra paziente-famiglia-medico di base e specialista si deve cercare di migliorare la qualità di vita del malato rendendolo più sereno verso il futuro.
Il paziente affetto da morbo di Parkinson è una persona che viene notata dall’osservatore esterno per il tremore diffuso, le acinesie.
La malattia è visibile, non è camuffabile, in particolare nei momenti di “off”.
Il malato parkinsoniano come altri malati neurologici vive la malattia come una grossa minaccia alla vita di relazione, alla vita sociale.
Altre malattie, penso ai tumori, ai disturbi cardiocircolatori quali l’ipertensione arteriosa grave, sono patologie non immediatamente visibili: la menomazione fisica intacca seriamente il benessere psicofisico della persona ma il paziente non appare diverso dalla persona sana.
Così non è per il malato di Parkinson.
In questo caso la malattia è frustrazione dell’esigenza umana di un benessere fisico e psichico (il corpo ammalato influisce negativamente sul tono dell’umore, sul livello d’ansia della persona), ma anche frustrazione relazionale ogni qual volta il paziente comprende che la sua disabilità fisica suscita la curiosità invadente degli altri o una forzata compassione.
Penso che questa frustrazione legata alla difficoltà di intessere rapporti sociali non stressanti sia vissuto frequente del paziente con morbo di Parkinson.
Le difficoltà di rapporto sociale, la difficoltà di accettare la progressiva invalidità fisica e le menomazioni che comporta sono problemi che il paziente con Parkinson deve affrontare e che spesso incidono negativamente sull’umore.
Uno studio di Dooneief et al. 1992, indica una percentuale del 47% di disturbo depressivo nei pazienti con malattia di Parkinson.
Inoltre, i malati di Parkinson possono risentire di un indebolimento della performance nei ruoli sociali a causa del comportamento impulsivo e inappropriato alle circostanze che il malato a volte manifesta.
Sono poi possibili disturbi di tipo allucinatorio: più frequenti le allucinazioni visive, meno frequenti quelle uditive.
I fenomeni allucinatori hanno una durata massima di qualche minuto e raramente si osserva uno stato di confusione mentale: quindi vi è la consapevolezza di quello che si vive in quel momento.
Nei pazienti con morbo di Parkinson risultano più rari gli episodi psicotici, ad esempio il disturbo delirante tipo di gelosia e tipo di persecuzione con la paura di avvelenamento.
Negli ammalati con morbo di Parkinson si possono riscontrare anche una serie di disturbi cognitivi.
I pazienti spesso presentano deficit nell’ambito degli esercizi di risoluzione di problemi e di formazione dei concetti.
Può declinare in modo considerevole la capacità di insight e di giudizio.
Le persone con disturbo di Parkinson possono presentare delle difficoltà con compiti costruttivi, nella fluidità verbale, nel ragionamento non verbale e in certi aspetti della percezione del linguaggio.
La presenza del disturbo depressivo in molti pazienti con morbo di Parkinson rende più difficile una corretta valutazione dello stato cognitivo del paziente.
La persona depressa, ad esempio, può affrontare una situazione di test con una scarsa motivazione ai compiti proposti e questo stato psicologico tende a peggiorare il rendimento alla prova.
Ritengo utile nel primo contatto dello psicologo con il malato di Parkinson, che il professionista somministri una scala psicometrica finalizzata alla valutazione dell’eventuale presenza di depressione.
Una valutazione psicologica fatta attraverso una scala di questo tipo risulta inoltre molto utile per sondare l’efficacia di un intervento di sostegno psicologico individuale al paziente, di un percorso di psicoterapia o di un supporto psicofarmacologico.
La stessa scala somministrata può essere riproposta dopo un certo lasso di tempo per verificare l’andamento clinico del disturbo depressivo.
La valutazione psicologica del paziente con morbo di Parkinson deve prevedere un’indagine approfondita sullo stato emotivo del soggetto.
Bisogna verificare oltre alla presenza o assenza di disturbo depressivo, il livello dell’ansia attuale e di tratto (indice che indica la propensione soggettiva all’ansia).
Ritengo inoltre utile una valutazione del livello cognitivo del paziente fatta anche con una semplice scala per la valutazione dello stato cognitivo.
Qualora si evidenziassero dei deficit sarà compito dello psicologo approfondire la valutazione magari avvalendosi della consulenza di un neuropsicologo.
Bisogna poi sentire i familiari del paziente: da loro si possono ottenere delle utili informazioni sul quadro psichico del loro congiunto, su eventuali comportamenti anomali e sui possibili deficit cognitivi da loro notati (ad esempio vuoti di memoria).
Lo psicologo avrà inoltre modo di comprendere qual è il vissuto dei familiari rispetto alla malattia del paziente, la presenza nei familiari di eventuali disturbi d’ansia e/o di depressione o di atteggiamenti di fuga rispetto alla malattia del loro congiunto.
Lo psicologo deve verificare nel paziente come nel familiare eventuali aspettative irrealistiche nei confronti delle cure, atteggiamenti di disimpegno o di eccessiva banalizzazione dei problemi fisici e psichici del malato nella fase iniziale della malattia.
E’, inoltre, necessario che lo psicologo rimanga aggiornato attraverso il contatto con il neurologo che segue il paziente dei vari atti terapeutici medici messi in atto.
In questo modo lo psicologo può essere di maggiore aiuto nel favorire la compliance del paziente rispetto al trattamento farmacologico, che può presentare i suoi pesanti effetti collaterali, magari sul lungo periodo, come nel caso della terapia dopaminergica.
Queste succitate sono le premesse per poter calibrare un intervento di sostegno psicologico con il paziente e con il nucleo familiare e qualora se ne intraveda l’utilità, di un intervento psicoterapeutico per intervenire su eventuali gravi disturbi psichici del paziente.
Può inoltre essere utile l’apprendimento da parte del paziente con morbo di Parkinson di tecniche di rilassamento psicofisico su base autosuggestiva.
Una tecnica interessante è il training autogeno, che comprende una prima serie di sei esercizi, il cosiddetto ciclo somatico, dove per mezzo di una concentrazione psichica passiva su specifiche formule si porta il corpo ad uno stato di rilassamento contraddistinto tra l’altro da un tono muscolare simile a quello di una persona che dorme.
Questa serie di esercizi è utile per favorire una distensione psicofisica che permette anche di recuperare energie; inoltre si favorisce l’autocontrollo emotivo, attraverso l’acquisizione progressiva nell’allenamento agli esercizi, di uno stato di calma interiore.
Gli esercizi possono essere appresi sia individualmente con il terapeuta sia in seduta di gruppo e vanno svolti preferibilmente distesi su un lettino.
Qualora siano indicati, vi è inoltre una serie superiore di esercizi che è da considerarsi una vera e propria psicoterapia.
Con questa ulteriore serie di esercizi si possono evidenziare anche eventuali traumi emotivi che la persona rimuove a livello cosciente, e vissuti psicologici personali di cui si ha poca coscienza.
Il tutto con il fine anche di una maggiore conoscenza di sé ed accettazione della propria realtà emotiva più profonda.
Questa, come altre tecniche di psicoterapia, può portare ad un condizionamento a livello subconscio sull’atteggiamento psichico del paziente rispetto alla sua malattia, favorendo comportamenti più appropriati alla gestione della stessa.
Il contatto costante con i familiari e con eventuali altre persone che vivono in stretto contatto con il paziente, risulta poi un necessario rimando allo psicologo dell’efficacia del proprio intervento al di là della valutazione psicologica del paziente fatta nel corso dei colloqui dal professionista stesso.
1. Ultimamente mi accade sempre più spesso di finire sotto stress quando mi trovo tra la gente a causa di improvvisi blocchi motori oppure perché non riesco a star dietro al ritmo degli altri. Questo mi deprime talmente che non oso più uscire da solo.
Anche se la malattia di Parkinson è una malattia neurologica dovuta alla carenza di dopamina, sullo stato di benessere della persona giocano un ruolo importante anche i fattori psicologici. Così, ad esempio, situazioni di stress possono avere forti effetti negativi sui sintomi motori tali da vanificare perfino l’efficacia del trattamento farmacologico.
Proprio in pubblico i pazienti con la malattia di Parkinson si possono trovare in situazioni motorie imprevedibili che scatenano stress e, di conseguenza, si accentuano i sintomi tipici della malattia.
Se queste situazioni si ripetono, non di rado il paziente cerca di evitare gli altri, anzi, con il tempo, atteggiamenti di questo tipo possono condurre ad una totale chiusura sociale e, in più, si aggiungono spesso anche sentimenti di impotenza e di depressione.
In un sondaggio che ha coinvolto oltre tre mila pazienti affetti dalla malattia di Parkinson, i due terzi hanno ammesso che già ai primi segnali di stress i sintomi parkinsoniani erano peggiorati.
Per evitare che si arrivi a questo circolo vizioso che più a lungo dura, più difficile è debellarlo, si dovrebbe intervenire il più presto possibile con provvedimenti a carattere psicologico.
Durante le sedute con lo psicologo, vengono dapprima analizzate le situazioni che provocano disagio. Il susseguente training per superare lo stress, dovrebbe aiutare il paziente ad evitare l’isolamento sociale attraverso una migliore accettazione della malattia e, quindi, dei disagi che può provocare, senza vergognarsene.
E’ anche importante per il malato far conoscere ai familiari i sentimenti che prova in quel momento: come vive la malattia e cosa significa per lui.
In determinate circostanze vengono introdotti anche “giochi delle parti” tramite “videofeedback” così il malato può esercitarsi applicando, in situazioni problematiche ricorrenti, determinate regole di comportamento.
Il problema non va affrontato chiudendosi in se stessi con la propria malattia e isolandosi socialmente, è invece necessario imparare ad utilizzare al meglio i propri spazi di benessere fisico.
2. Malgrado il trattamento farmacologico, vivo le fluttuazioni motorie come una minaccia. Soprattutto i momenti di blocco motorio sono per me molto penosi. Cosa posso fare per superare questa paura?
Per i pazienti che partecipano volentieri alla vita sociale, sono molto gravose le fasi di acinesia durante le quali la motilità è limitata o addirittura bloccata.
Ne va della qualità della vita.
Per cercare di risolvere psicologicamente questa problematica si può ricorre a diverse strategie.
Bisogna, prima di tutto, prendere atto che emozioni negative come paura, panico, senso di abbandono e d’impotenza peggiorano la situazione. Si può provare ad imparare speciali tecniche di rilassamento la cui applicazione può rivelarsi utile anche in determinate situazioni sociali per migliorare le proprie sensazioni ed acquisire maggiore fiducia in se stessi e maggiore stabilità.
Così è possibile sopportare meglio le crisi acinetiche senza doversi isolare completamente.
Un altro modo di procedere potrebbe essere quello di ripensare il proprio ruolo sociale ed eventualmente modificarlo. Non è sempre necessario, per esempio, essere in società “il cavallo trainante”. Ci sono tanti modi diversi per partecipare alla vita sociale e che si possono adattare meglio ad una fase di acinesia, per esempio, l’ascolto attento. E’ bene anche che gli altri partecipanti del gruppo siano informati sulla malattia di Parkinson, su i suoi sintomi e siano al corrente delle esigenze personali di chi ne è affetto. In questo modo si possono evitare per il malato ulteriori incomprensioni e situazioni sgradevoli.
Non esiste però una ricetta standard. La formula per superare queste difficoltà può essere assai diversa da caso a caso. Per trovarla può essere d’aiuto rivolgersi allo psicologo.
3. Assisto mia moglie malata di Parkinson da alcuni anni. Talvolta perdo la pazienza con lei. Poi mi dispiace e provo dei sensi di colpa.
Specialmente nella fase precoce, subito dopo la diagnosi della malattia di Parkinson, ma anche lungo il decorso della malattia, i coniugi dei malati parkinsoniani hanno la tendenza ad essere troppo premurosi.
Da una parte si vorrebbe evitare, il più possibile, qualsiasi lavoro al malato e dall’altra anche il familiare ha l’esigenza di avere i propri spazi.
Vi sono, inoltre, situazioni in cui il marito o la moglie tendono ad attribuire al malato cattiva volontà: capita anche, nonostante sia stato tutto accuratamente pianificato, che al malato improvvisamente non va di fare più niente, ad esempio: andare dal medico. Allora si fa tutto con grande fatica, poi in sala d’aspetto, è di nuovo tutto normale, come se nulla fosse successo: tipiche situazioni di stress che possono far scappare la pazienza ai familiari. Succede, poi, che abbiano sensi di colpa perché non sono riusciti a comportarsi come volevano, come dei buoni partner.
E’ sicuramente vero che, a causa della malattia, i compiti giornalieri fra i coniugi devono essere suddivisi diversamente. Dall’altra parte si deve lasciare fare al malato, se pur lentamente, tutto quello che è in grado di fare.
Per superare queste situazioni di tensione, è importante anche per il coniuge avere un sostegno psicologico.
LA FAMIGLIA
La famiglia è il modo prevalente in cui le persone vivono insieme.
Comincia con una donna ed un uomo che provengono da famiglie diverse, ognuno con proprie abitudini di convivenza. Quando si forma una nuova famiglia, i due coniugi contrattano, sulla base delle loro esperienze precedenti, il modo in cui vivere insieme. Infatti, la comunità sociale dice solamente a grandi linee come deve essere la famiglia. Oggi ci si aspetta che essa sia piuttosto autonoma dal sostegno finanziario ed emotivo delle famiglie di origine dei due coniugi e che i ruoli sessuali al suo interno siano tendenzialmente paritari. Sono acquisizioni recenti. Entro questi limiti, c’è ampia libertà di scelta su come organizzare la famiglia, ad esempio nella ripartizione dei compiti di educazione dei figli fra due coniugi ecc., secondo le preferenze e l’esito della contrattazione fra i suoi membri.
Si possono descrivere i rapporti fra le persone in termini di differenza o di somiglianza. Quando in una coppia c’è una persona prepotente ed una sottomessa, oppure una efficiente e l’altra relativamente inetta, quando cioè i rapporti sono quasi gerarchici nella distribuzione, molto diversa, di potere responsabilità fra due persone, per cui sembra che una persona stia sempre sopra e l’altra sempre sotto, una comanda e l’altra obbedisce, una decide e l’altra esegue, questi rapporti sono organizzati per differenza. Nei rapporti organizzati per somiglianza, le persone hanno più o meno lo stesso comportamento, come, ad esempio, sacrificarsi per la famiglia, prendersi cura dei figli, ecc..
La contrattazione, fra una donna e un uomo che si mettono insieme a formare una nuova famiglia, riguarda le cose più banali della vita quotidiana. Un comportamento tipico: il marito non ripone i suoi vestiti nell’armadio; probabilmente nella sua famiglia di origine era la moglie a farlo (cioè i rapporti erano organizzati per differenza). Nella definizione della famiglia di oggi, cioè paritaria, questo spetta a lui. Perciò, se lui “se ne dimentica” sempre, lei si arrabbia. L’esito di discussioni come questa fra marito e moglie stabilirà come andranno le cose nella famiglia che si sta formando, nelle varie aree della vita comune.
Altro caso, se all’inizio del matrimonio la moglie non lavora fuori e si occupa della casa, una volta che questa trova un lavoro si altera l’equilibrio precedente per cui, ad esempio, se prima preparava il pranzo per una certa ora del giorno, non può più farlo. Il marito può reagire in vari modi: sostituirla in cucina, non accettare la situazione mutata ed aprire una discussione, mettere il muso, non dire niente e vendicarsi in modo indiretto ecc..
Tutto questo fa parte di una contrattazione che non avviene solamente per parole (ragionamenti, discussioni, litigi), ma anche attraverso comportamenti quotidiani come quelli descritti. Il risultato di tutto questo contrattare fra marito e moglie è che la famiglia che ne uscirà avrà le sue regole particolari, che sono l’identità di questa famiglia. E’ come con le carte francesi: si possono fare diversi giochi, pur restando le stesse carte. Quello che decide se si tratta di Pinnacolo anziché di Scala quaranta sono le regole del gioco. Così una famiglia è sempre una famiglia, ma ognuna ha le sue proprie regole, che ne fanno l’identità, l’organizzazione di quella famiglia.
La famiglia, che si è strutturata nel tempo e che si è accresciuta con l’arrivo dei figli, è un po’ come un corpo vivente: qualsiasi cosa possa succedere ad uno dei suoi membri influisce su tutti gli altri. E’ un po’ come accade agli organi dentro un corpo vivente: fegato, cervello, rene, non sono solo degli organi isolabili dal resto, ma sono fatti anche delle relazioni che hanno con tutti gli altri organi. Questa analogia serve per dire che si può capire il comportamento di una persona se si guarda anche al comportamento dei suoi familiari.
La famiglia cambia nel corso del tempo, perché ci sono processi interni ed eventi esterni che la portano continuamente a cambiare, ad attraversare fasi diverse. Una tappa importante è la nascita del primo figlio, che porta la famiglia a rivolgersi al proprio interno per affrontare i compiti di accudimento. Poi c’è l’ingresso del bambino a scuola, che è il primo confronto con la società sul tipo di educazione che la famiglia ha dato al bambino, una specie di “primo esame” di tutta la famiglia.
Momenti successivi sono l’adolescenza dei figli, il giovane adulto che lascia la casa, la coppia anziana che rimane quando i figli sono andati via. Ad ogni momento del ciclo di vita della famiglia corrisponde un compito particolare.
L’EVENTO CRISI DELLA MALATTIA DI PARKINSON NELLA FAMIGLIA
In generale, la malattia è un momento di crisi per la famiglia, nel senso che arriva in una organizzazione familiare in cui sono stati distribuiti dei ruoli, ci sono determinati compiti relativi alla fase in cui si trova la famiglia che devono essere assolti e la malattia viene ad interferire con tutto questo, con importanti conseguenze. La malattia di Parkinson ha alcune caratteristiche. E’ ad insorgenza graduale. Una malattia che aumenta a poco a poco nel tempo le richieste alla famiglia di adattamenti necessari (che possono essere cambiamenti di ruolo, di funzione dei suoi membri) permette una maggiore gradualità nei cambiamenti e provoca, quindi, minore disagio di una malattia in cui una crisi immediata (esempio ictus) comporta cambiamenti molto forti in tempi molto brevi. Taluni casi: un padre che è stato il maggior sostegno economico della famiglia e ha sempre prevalso nelle decisioni, può dover essere accudito; una madre che è sempre stata efficiente, il perno della famiglia, può dover dipendere dagli altri; un giovane adulto che si prepara ad uscire di casa, a farsi una vita propria, a causa della malattia di uno dei genitori può decidere di rimandare nel tempo i suoi progetti, rinunciandovi per un certo periodo. C’è comunque una crisi per il cambiamento di ruoli e per una perdita dell’identità precedente della famiglia che diventa un’altra, conservando il ricordo di quello che era, per affrontare la crisi dovuta alla malattia. Poiché è una malattia progressiva richiede un continuo cambiamento all’interno della famiglia ed un modo di adattarsi ad essa che mantenga però una certa autonomia dei suoi membri. Affrontare la malattia e salvaguardare l’autonomia delle persone dentro la famiglia sono i due compiti cui far fronte. Anche se la malattia di Parkinson non influisce sul rischio di vita, mette ugualmente di fronte a situazioni di perdita: di funzioni, di ruolo sociale, di alcune capacità. Tali situazioni richiedono un certo lavoro di elaborazione del lutto, di ridimensionamento dei propri progetti di vita.
E’ una malattia inabilitante, anche se in maniera molto graduale. Il maggior disagio nella famiglia viene dal fatto che può essere inabilitante a livello dell’autonomia motoria e talora delle funzioni cognitive. Un elemento facilitante che arriva ad esserlo, però, abbastanza tardi nel tempo, così che, una volta conosciuta la diagnosi e il decorso della malattia, c’è modo di progettare la propria vita e quindi, di essere preparati a far fronte alle richieste che la malattia farà in futuro. E’ importante il senso di competenza che si riesce ad avere riguardo la malattia e questo viene dal conoscerla e dal trovare le risorse per affrontarla.
IL CICLO DI VITA DELLA MALATTIA
Come la famiglia, anche la malattia ha il suo ciclo di vita, ad ogni fase del quale corrispondono compiti specifici.
L’esordio della malattia, cioè il momento della diagnosi, convoglia le energie della famiglia al proprio interno, come per la nascita del primo figlio, per il carico dei nuovi compiti: affrontare il dolore, abituarsi a conviverci, ad averlo in casa, sopportare il carico della riabilitazione, dei rapporti con l’ospedale ed altro ancora.
Ad un livello più profondo, si tratta di affrontare la domanda sul significato che ha questa malattia.
C’è poi il periodo della cronicità, che permette di rivolgersi ancora verso l’esterno, e quindi di salvaguardare l’autonomia dei membri della famiglia e insieme sopportare i compiti continui di accudimento che richiede la fase della malattia. La malattia di Parkinson ha poi una terza fase con una caratteristica che in altre malattie si ha all’inizio, e cioè quella della crisi che mette di fronte a bruschi cambiamenti. Succede quando la terapia che fino allora funzionava inizia a perdere rapidamente efficacia ed occorre cambiarla. Da questo aggravamento ne deriva la possibilità di crisi che provocano riorganizzazioni talora necessariamente repentine all’interno della coppia.
IL DISAGIO DELLA FAMIGLIA DI FRONTE ALLA MALATTIA DI PARKINSON
Ci sono problemi dovuti all’interferenza della malattia con una fase del ciclo vitale della famiglia che richiede che, in quel momento, il grosso delle sue energie vitali sia speso fuori. Ad esempio, durante l’uscita dalla famiglia di un figlio che può, così, restare bloccato un po’ di tempo. A causa della malattia, la famiglia può cambiare oppure restare bloccata all’organizzazione precedente. Se il periodo in cui è richiesto il lavoro coordinato di tutti per far fronte alla malattia si prolunga più del tempo necessario, ci possono essere dei disagi per le persone, che non fanno la propria vita.
Ci sono problemi legati all’organizzazione familiare, specie se questa è dotata di scarsa flessibilità. Ad esempio, una famiglia organizzata rigidamente in termini di differenze in cui uno è sempre responsabile e l’altro da accudire, può non essere in grado di attuare la riorganizzazione necessaria. Ci sono esempi di persone poco collaborative con la riabilitazione perché mantengono un ruolo inadeguato, rifiutando che altri si prendano cura di loro, ed esprimono la difficoltà a cambiare ruolo con una sorta di dispettosità verso chi le accudisce.
C’è tutta una serie di reazioni tipiche, che sono state descritte nella letteratura medica, che andrebbero comprese nei termini di rapporti fra le persone. La famiglia risponde alla sofferenza di avere un suo membro malato in molti modi, alcuni difensivi. In alcuni tipi di malattia (non questa) la famiglia rende responsabile il malato stesso, quando può metterla in relazione con abuso alimentari o di altro tipo. A volte la malattia è l’occasione per riequilibrare i rapporti: se una persona era troppo prepotente, la malattia viene utilizzata per limitarne il potere, Il che può essere giusto, dipende dagli spazi di sopravvivenza psicologica che vengono lasciati. Una altra reazione è quella di curare eccessivamente, infantizzando l’altro, o di non coinvolgerlo nei problemi della vita futura che riguardano tutta la famiglia. Un altro modo è quello di voler evitare al malato turbamenti e quindi di metterlo da parte rispetto alle decisioni importanti della famiglia o a fatti che potrebbero fargli dispiacere; questo però lo emargina. Alle reazioni alla malattia da parte dei familiari, corrispondono modi di “fare” il malato che appaiono incomprensibili se si osserva solo lui e cioè rifiutare le cure, negare di avere la malattia, sfuggire con sotterfugi alla riabilitazione ecc.. Sono tutti segnali di una sofferenza che può essere compresa allargando il campo di osservazione a tutta la famiglia.
Un altro tipo di problema può venire dal fatto che ambedue i coniugi, nelle rispettive famiglie di origine, avevano avuto a che fare con malattie, magari più gravi, ma dalle caratteristiche diverse da quella di Parkinson. Ad esempio, l’ictus, che porta uno sconvolgimento brusco nella vita familiare, o malattie a rischio di vita, che comportano il compito di anticipare il dolore della perdita. Sono malattie più gravi ma che lasciano impreparati di fronte ad una malattia che pone compiti diversi. C’è poi la situazione, poco frequente, di famiglie che presentano problemi molto gravi in conseguenza di malattie di questo genere. Sono famiglie che avevano già in sé una grossa sofferenza e che rispondevano alla forte emotività, per la presenza di conflitti al proprio interno, con la malattia; sono le cosiddette famiglie psicosomatiche.
Infine può essere che il disagio portato dalla malattia si sommi ad una difficoltà preesistente nella famiglia, come una altra malattia, per cui il carico dei compiti da sopportare diventa troppo gravoso.
Nel morbo di Parkinson molte sono le situazioni di “bisogno” che vengono manifestate dal paziente nel corso della malattia.
Oltre a trattare la malattia seguendo costantemente una complessa terapia farmacologica e riabilitativa, occorre prestare molta attenzione alle importanti esigenze che investono la sfera psico-sociale dell’individuo.
I disagi creati dalla malattia costringono il malato a prendere atto della nuova realtà che sta vivendo.
Essere malato di Parkinson non comporta solamente un mutamento spesso significativo delle proprie abitudini di vita determinato dai sintomi della malattia, ma anche preoccupazioni per la vita familiare, per il danno economico, per la temuta estraniazione dalla vita sociale.
Di fronte a questi problemi la persona pone, spesso, in atto dei meccanismi di difesa che determinano conseguenti comportamenti.
Tali comportamenti, è bene dirlo, non sono tipici od esclusivi di una particolare patologia.
Possono essere, infatti, rilevabili in qualsiasi stato di sofferenza che investe la persona.
Per esemplificare, indichiamo alcuni atteggiamenti fra quelli più comuni che si riscontrano generalmente nel malato:
– negazione (non è nulla passerà): è prevalente il rifiuto di ammettere l’ingresso della malattia, pur convivendo con l’angoscia del dubbio che, con il peggioramento delle condizioni di salute, si fa sempre più certezza;
– accusa rivolta all’ambiente circostante di mostrare scarso interesse verso i problemi causati dalla malattia (Nessuno si interessa a me!). La persona ha rapporti sempre più difficili nell’ambito familiare;
– attribuzione ad altre cause esterne e generiche del peggioramento della malattia (Mi sento debole, ma sono i farmaci che mi buttano giù!);
– regressione (Non posso pensare ad altro, ho bisogno di curarmi!): viene accentrata l’attenzione unicamente sul proprio status di malato, trascurando qualsiasi altro interesse anche precedentemente molto vivo;
– remissività (Me l’ha ordinato il medico, devo assolutamente…): il malato tende a diventare eccessivamente remissivo e compiacente, annullando la propria personalità e capacità critica;
– isolamento (Mi sento in difficoltà con gli altri, tutti notano il mio tremore!): si evitano i contatti sociali per timidezza o per paura di essere rifiutato a causa delle proprie condizioni fisiche;
– depressione (Sono finito!): la consapevolezza di perdere la salute, con la conseguente accettazione dei propri deficit fisici, può rendere la persona malata indifferente e distaccata verso il mondo esterno.
Questi atteggiamenti, in una malattia cronica come il morbo di Parkinson, possono accentuarsi con il passare del tempo e spesso, per essere attenuati, richiedono una risposta di tipo assistenziale.
La malattia del congiunto può avere profonde ripercussioni anche sulla famiglia, così da richiedere uno sforzo di adattamento da parte di tutti i suoi componenti.
In genere si è propensi a ritenere che quando la malattia colpisce un familiare, i congiunti devono quasi automaticamente reagire in modo razionale, manifestando un senso di solidarietà e di comprensione verso il malato. In realtà, però, la malattia può provocare nei familiari reazioni impreviste ed impensabili che possono diversamente configurarsi.
Ad esempio, la famiglia cerca di vivere positivamente la malattia e collabora con gli operatori sanitari nella cura del congiunto.
Altre volte, invece, la famiglia non riesce ad accettare la malattia.
Questo comportamento può, addirittura, danneggiare l’attività terapeutica ed assistenziale rivolta al paziente.
In alcuni casi, la famiglia manifesta stanchezza e sofferenza per lo stress psico-fisico causato dall’assistenza in casa del malato oppure per il protrarsi dei tempi di degenza ospedaliera.
Si possono verificare situazioni in cui la famiglia non è in grado di assistere il malato per cause obiettive di tempo e di disponibilità dei familiari, per l’anzianità dell’altro coniuge, ecc.
Ne deriva che un corretto intervento assistenziale e terapeutico deve coinvolgere oltre al malato anche i componenti del nucleo familiare.
I familiari, infatti, necessitano sia di aiuto pratico, sia di sostegno affettivo per riuscire ad adattarsi agli aspetti negativi della situazione creatasi.
Informazioni ed assistenza psicologica possono, perciò, rivelarsi essenziali e decisivi per aiutare sensibilmente i malati ed i familiari ad affrontare questa nuova situazione e a migliorare la solidarietà all’interno della famiglia.
E’, infatti, solo attraverso l’accettazione dei reciproci problemi che i nuclei familiari colpiti possono reagire in modo costruttivo e ciò va, senz’altro, a beneficio del malato e delle persone che gli vivono accanto.
La nostra Associazione, consapevole dell’esistenza di queste complesse problematiche, organizza già da vari anni, presso la propria sede, incontri di gruppo, formati dai malati e dai loro familiari.
Per il malato far parte di un gruppo di sostegno può significare:
– rompere l’isolamento in cui vive;
– avere la possibilità di confidare i propri disagi ed esprimere le proprie difficoltà legate alla malattia;
– confrontarsi con altre persone che hanno problemi analoghi;
– aiutare se stesso e gli altri attraverso lo scambio reciproco delle proprie esperienze;
– individuare i bisogni e i problemi comuni per poterli risolvere insieme.
In generale, la malattia è un momento di crisi nella famiglia.
Nel senso che la famiglia, nel tempo, si è data una organizzazione ed ha distribuito dei ruoli.
Ha un suo modo di funzionamento che le è peculiare e quando, all’interno della famiglia, c’è la malattia di un suo membro, la famiglia si deve riorganizzare per fare fronte a questa malattia.
La malattia di Parkinson ha la caratteristica di essere ad insorgenza graduale.
Quindi, più di altre malattie che sono improvvise (ad esempio un ictus), questa malattia permette alla famiglia di modificarsi nel tempo per adattarsi alle varie necessità del malato.
Caratteristica, quindi, della malattia di Parkinson è, appunto, quella di essere progressiva e questo dà la possibilità alla famiglia di riorganizzarsi, di avere un certo lasso di tempo per adattarsi.
Le crisi, però, si possono avere un po’ più avanti nella malattia, quando i farmaci che fino a poco prima erano efficaci, perdono la loro efficacia, quando occorre aggiustare la terapia farmacologia.
La malattia è un evento che riguarda tutta la famiglia.
La famiglia funziona come un organismo.
La malattia di un suo membro influisce su tutti gli altri.
La malattia si colloca in un momento della vita della famiglia.
La famiglia ha un ciclo di vita simile a quello degli individui.
La famiglia richiede di affrontare compiti diversi nel corso del tempo (nasce il primo bambino, i figli vanno a scuola…).
Con i gruppi di sostegno ho conosciuto delle persone per lo più in età avanzata (il morbo di Parkinson, però, si manifesta anche in età meno avanzata).
Il problema che si pone spesso ai figli, in giovane età, il cui padre si è ammalato, è di rimandare o meno il momento dell’uscita dalla famiglia di origine, proprio per la necessità di sostenere i genitori in questa difficile prova.
Un altro problema del malato è quello dell’andare in pensione.
Molti uomini parkinsoniani hanno dovuto lasciare il lavoro a causa della malattia e questo provoca dei contraccolpi sul senso di identità sociale.
La depressione che spesso è associata alla malattia di Parkinson, avrà cause sicuramente mediche. Si è visto che la depressione può precedere il manifestarsi dei sintomi molto più specifici della malattia ma, sicuramente, ha anche a che fare con le perdite che si subiscono in questa malattia che sono perdite di autonomia ma anche di ruolo sociale.
Questo è un aspetto particolarmente doloroso per gli uomini in quanto l’identità legata al lavoro è l’identità stessa della persona.
L’esperienza che ho avuto in questi gruppi di sostegno, è che per le donne l’impatto è molto meno doloroso perché l’identità della donna è strutturata molto più sul suo essere perno all’interno della famiglia e sul prendersi cura degli altri.
Tutti aspetti che difficilmente vengono meno anche in una malattia come il Parkinson e quindi, la perdita di ruolo all’interno della famiglia, per la donna, non avviene mentre per l’uomo è la perdita del ruolo lavorativo e sociale che si somma anche alla necessità di ridefinire i ruoli all’interno della famiglia.
Quando la malattia si manifesta in età avanzata, la persona che si prende cura del malato è il coniuge, di solito la moglie.
Mentre i figli vanno via di casa, rimane al coppia da sola.
C’è il timore del coniuge sano della perdita di un interlocutore valido perché c’è il fantasma della perdita delle capacità cognitive da parte del malato, di una relativa perdita della capacità di essere nel rapporto.
In ogni caso le risorse nel rapporto per affrontare la malattia in gran parte sono le risorse della famiglia, risorse familiari.
La presenza di una rete di figure di sostegno, sia a livello di rapporti interpersonali (parenti, amici), sia sociale (come può essere l’associazione, la parrocchia…) sono essenziali per la capacità della famiglia di far fronte alla malattia.
Ci sono delle famiglie che riescono ad riorganizzarsi facilmente al loro interno in cui i ruoli sono abbastanza flessibili e quindi fanno fronte più facilmente alla malattia e ci sono famiglie che sono più rigide al loro interno e lì è più difficile rimaneggiare i ruoli.
Per esempio, la dispettosità del malato nel collaborare alle cure.
I modi in cui si manifesta la mancanza di collaborazione nelle cure spesso può avere il significato simbolico di non voler rinunciare ad un ruolo di preminenza, di una ridefinizione di ruolo che non si accetta più di tanto.
Quindi, l’aspetto è quello della capacità della famiglia di riorganizzarsi.
Questo riguarda le famiglie al loro interno e poi c’è l’aspetto di mobilitare risorse esterne da parte della famiglia oppure di essere già in una rete sociale che sostiene.
Ci sono famiglie che sono in grado di attivare o di mantenere una rete sociale che già hanno e di altre famiglie o di altri malati che tendono all’isolamento a causa della malattia.
Questi sono i fattori che predicono quanto un malato, quanto una famiglia riuscirà ad adattarsi più o meno bene alla malattia.
I familiari vivono un disagio particolare. Tante persone si occupano dei malati e si tiene meno in conto il disagio dei familiari che è grandissimo, che spesso si manifesta come un senso di colpa che non si riesce a curare.
Vorrei dire che per i familiari una risorsa loro personale è il malato stesso.
Il malato può essere il sostegno della persona che se ne prende cura.
C’è un modo in cui il malato può rispondere a quelle cure del proprio coniuge, del proprio figlio che rende più forte la persona che si fa carico del prendersi cura di lui. Il malato è anche un supporto. Riesce a supportare chi gli da aiuto.
Accanto ai familiari che hanno bisogno di un supporto, di una rete sociale ci saranno anche famiglie che riescono a fare da sole, in maniera egregia, e questo ci dice che quando offriamo qualcosa (come l’Unione Parkinsoniani ecc..) dobbiamo anche aspettarci che ci siano delle famiglie che non usufruiscono di tutto quello che viene offerto ma anche che possono sentire una minaccia di regressione un ulteriore aiuto offerto ma non necessario.
Sempre nell’ambito dell’associazione si può ripetere l’equilibrio, da una parte il malato riceve supporto da una persona, ma il riconoscimento che dà alla persona che si prende cura di lui a sua volta riesce a rendere migliore questa persona —che è più capace di prendersene cura.
Questo succede nella serie di iniziative o nel catalogo che una associazione può offrire.
Accanto ai gruppi di sostegno può offrire al malato la possibilità di organizzare in prima persona la vita dell’associazione.
Può essere oggetto di supporto e supportare l’associazione.
Anche questo è un aspetto.
Un gruppo di malati e uno di familiari aventi cadenza quindicennale.
Significato: un ritrovarsi e un confronto di strategie, la maniera di affrontare la malattia che fa uscire dall’isolamento e la possibilità di avere un contatto intimo là dove c’è una sofferenza molto intima, molto particolare, dei malati ma anche dei familiari ma che è difficile dire fra malati e familiari mentre all’interno di un gruppo omogeneo di soli malati o di soli familiari si può dire fino in fondo lo sconforto o anche trovare una maggiore serenità proprio perché viene dalla condivisione.
Caratteristica dei familiari dei malati di Parkinson è il senso di colpa perché devono dare al congiunto i limiti della loro disponibilità ed affrontare la tristezza del malato se dicono di no.
Stiamo parlando soprattutto di mogli di malati.
Questa minaccia della tristezza del malato è così forte che qualche moglie ci prova, con serietà, ad essere santa, a nascondere i propri limiti umani, la propria stanchezza al marito.
La malattia esercita nei rapporti fra coniugi, soprattutto, il richiamo di una simbiosi, in cui si sta vicini, si condivide tutto, quasi ci si confonde l’uno con l’altra.
Queste situazioni, però, possono far crescere contraddizioni.
Il desiderio della moglie di partecipare alla vita dei figli e dei nipoti, di avere spazi propri si può scontrare con il risentimento del malato per il solo fatto che la moglie ha “preso aria”, si è appassionata a qualcosa fuori dalla famiglia.
La contrattazione, cioè fare i conti con i propri limiti, è necessaria e non negativa: ne è un esempio il patto di una figlia con la propria madre di riportarla a casa dal day hospital finché cammina (sarà, probabilmente, l’ultima autonomia che la madre perderà).
Il timore più grande dei familiari è di perdere, nel malato, un interlocutore valido: nel caso del coniuge di perderne l’appoggio e il dialogo.
Da un lato la diminuzione di capacità, di autonomie, che investe il malato, l’andare in pensione (cioè perdere il ruolo lavorativo su cui si è costruita gran parte dell’identità sociale, almeno per l’uomo), la ridefinizione del proprio ruolo all’interno della famiglia perché si diventa dipendente ecc.; dall’altro il doversi prendere cura del malato da parte della moglie che può comportare a quest’ultima il compito di indicare realisticamente al marito, per quanto con molto tatto, i suoi limiti, sono tutte cose che richiedono un adattamento reciproco molto grande.
La dispettosità mostrata dal malato, il suo rifiuto a collaborare per non creare troppi problemi a chi si prende cura di lui, sono segnali di questa difficoltà ad accettare un cambiamento di ruolo.
Molte delle “ostinazioni” attribuite ai malati hanno come contenuto di mantenere un ruolo di preminenza, che prima era dato per scontato e che ora, nel nuovo assetto familiare dovuto alla malattia, appare di prepotenza o dispettosità.
Ad esempio, non sfuggirà il significato simbolico dell’ostinazione dell’uomo che non cede il posto a capotavola anche se le difficoltà di postura suggerirebbero di occupare la parte larga del tavolo; oppure di chi vuole comandare sul telecomando anche se poi sonnecchia davanti alla TV.
Per chi si occupa del malato, c’è il grande timore che la malattia possa cambiarlo nel carattere.
Può essere disorientante, ad esempio, trovarsi davanti due persone diverse a seconda dell’effetto o meno dei farmaci; una personalità in continuità con quella conosciuta nel passato, l’altra “cattiva” dei momenti di blocco motorio.
La “cattiveria” consiste in una sorta di “egoismo” e in un eccesso di pretese, come se la difficoltà, l’urgenza del bisogno facessero ritornare bambini.
Peggio ancora, si temono peggioramenti psichici, il “non starci con la testa”, che possono far perdere al familiare l’appoggio e il dialogo.
Soprattutto se il malato è il coniuge; ma anche nel caso di un genitore: la perdita della mimica del volto, dell’espressività, possono mettere molto in ansia.
A volte si ha l’impressione che il malato voglia mettere alla prova chi si prende cura di lui: “non sanno se è amore o compassione” dice una, per cui sembra che mostrino di non farcela.
“Mi manda via se si accorge di essere aiutato senza amore” dice un’altra.
Mantenere la giusta distanza per non suscitare irritazioni o dipendenza eccessiva e invalidante, ma essere comunque presenti al bisogno, è il problema di molte mogli.
“Quando è arrabbiato lui ce la fa” dice una, mentre un’altra osserva che la sua sola presenza presso il marito a volte sembra renderlo incapace e nella necessità di farsi aiutare anche per quello che normalmente sarebbe in grado di fare da solo.
Impressione confermata dall’osservazione comune che con gli estranei i malati “si tengono”, forse per non essere compatiti.
In molti casi, la dispettosità del malato, e le osservazioni che ne riceve in cambio in famiglia, sembrano essere un’efficace reazione contro la depressione (non solo del malato ma anche del familiare), con gradi diversi di consapevolezza da caso a caso.
Lo si fa “perché non si lasci andare” si dice a volte.
Arrabbiarsi, per quanto sia sgradevole, testimonia che ci si tratta da interlocutori validi, ed è rassicurante per tutti e due: che non si è degni solo di compassione; che l’altro è tuttora un proprio pari.
Quanto detto fin qui vale poco per le donne malate di Parkinson.
Questo avvalora la tesi che la maggiore difficoltà per gli uomini provenga dalla perdita del ruolo sociale-lavorativo (mi riferisco alla popolazione dell’Associazione, quasi tutti pensionati) e dal ridimensionamento del ruolo familiare.
Per le donne, si è osservato, le cose cambiano poco, anche se devono rinunciare al lavoro, perché “dal prendersi cura degli altri non si va in pensione”. “Le donne hanno meno paura” si è detto: infatti perdono meno.
Al posto degli uomini “si lascerebbero andare di meno”. In effetti sono più autonome e sembrano cavarsela meglio (almeno quelle dell’Associazione).
La dipendenza è un altro grande tema, che presenta spesso contraddizioni. Si è parlato del timore del cambiamento del carattere nel malato. E’ stato osservato che il più grande cambiamento non è dovuto alle medicine o alla malattia in sé, quanto al fatto di “sentirsi umiliato”, specie nei malati più giovani, per il senso di perdere “tutto quello che si era, il ruolo sociale”.
Da qui il conflitto: “di avere bisogno della moglie che però gli ricorda il suo fallimento”.
Non ferire la sensibilità del malato richiede spesso grande accortezza, essere presenti e astenersi dall’intervenire per aiutarlo, ma pronte in caso di bisogno.
Qui il malato sembra ridiventare ragazzo, che ha bisogno di un appoggio che non lo sostituisca ma lo stimoli a farcela.
Qualcuno ha bisogno di mettere alla prova l’amore della moglie, per sapere se si è conservato nonostante la malattia, arrivando magari a fare delle prove generali di sparizione, per osservare le ricerche ansiose e i richiami della moglie, o anche per verificare la sua capacità di essere più forte di lui nel saper contenere l’ansia di tutti e due e, quindi, di poterlo sostenere.
A volte i figli sembrano non capire il legame speciale che c’è fra i genitori anche sotto le critiche e le apparenti insofferenze.
Quando si rientra a casa, guai se non ci fosse quella persona, per quanto malata, “se no c’è il silenzio”, ci ha detto una partecipante al gruppo.
La presenza stessa significa, l’intendersi avviene per i segnali infinitesimi di una vita insieme.
Quando i figli cominciano a parlare di ospizio, di decisioni da prendere, è una spia che sono stati troppo coinvolti, che credono, a torto, di doversi sostituire al genitore malato nel sostegno e nel dialogo con l’altro.
Allora bisogna spiegare loro che non è così, che se pure ci sono critiche e asprezze, non c’è solo quello.
La dipendenza del malato è materiale ma anche affettiva, e quest’ultima riguarda anche chi se ne prende cura, ovviamente.
La malattia spinge alcune coppie a stare ancora più vicine, a voler condividere ogni difficoltà, a voler proteggere il partner malato, come quella moglie che si rammarica di “non poterci fare niente”, quando il blocco motorio prende il marito sul lavoro, dove lei non c’è.
Dipende certo molto da come era la coppia prima della malattia il modo in cui si declina la dipendenza reciproca dopo.
Qui ognuno può riconoscere a quale stile è più vicina la sua famiglia. Qualcuno, ad esempio, non ammette di dipendere, chiede il meno possibile, rifiuta l’aiuto dei familiari, dice che con loro “non si trova” a fare certe cose mentre con estranei (o esperti) si.
C’è chi coscientemente lotta, con l’aiuto di un esperto, contro la propria tendenza- stimolata dalla malattia e che tanti assecondano- a rinchiudersi, a “sentirsi in colpa” per un giro fuori casa, anche se necessario, che lascia solo il malato, “come se lui si dovesse dispiacere”.
Forse così affronta più sensi di colpa; si chiede se “non se ne pentirà”.
Una posizione del genere è difficile, richiede un sostegno particolare, persone che dicano che fa bene, così anche il malato è stimolato ad uscire.
Alcune hanno delineato la storia e la personalità del marito precedenti alla malattia come di persone poco rispettate, poco considerate, con pochi diritti nelle loro famiglie d’origine.
Mi sono chiesta se la naturale comprensione per gli aspetti più sofferti della vita precedente, che viene in seguito alla malattia, non abbia influenzato il bilancio di queste vite.
Forse, a cercare bene nella vita di ognuno di noi, si possono trovare situazioni subite con poca lucidità e potere contrattuale.
Oppure, si può trovare una connessione di questo tipo, come già è stato fatto per altre malattie, tra tipo di personalità e disturbo fisico, anche per il Parkinson, come veniva suggerito nel gruppo.
Venire al gruppo per alcuni/e è stato problematico, in alcuni momenti, perché si è portati a fare paragoni che turbano.
Ci sono almeno due modi di affrontare la malattia: parlarne apertamente, appoggiarsi all’ottimismo medico, mettere tra parentesi gli aspetti più deprimenti e andare avanti; oppure guardare a fondo, anche se non sempre ci si riesce, specie nei momenti di maggiore vulnerabilità.
Chi è più predisposto al secondo modo, è più facile che partecipi al gruppo.
A cosa è servito il gruppo: qualcuna ha trovato appoggio nella sua scelta di non isolarsi e di non farsi rinchiudere, di stabilire una contrattualità con il malato per avere i suoi spazi pur prendendosi cura di lui.
In gruppo si sono potuti dire i propri limiti, senza vergogna. E’ venuta fuori la grande sofferenza dei familiari, impastata di sensi di colpa, di bisogni di rassicurazione.
Solo dal gruppo dei familiari è venuto il timore che i congiunti, nel loro gruppo, ne approfittassero per parlare male dei loro familiari (non è avvenuto).
Solo il gruppo dei familiari ha espresso insoddisfazione, perché io, come psicologa, non darei consigli: in realtà i suggerimenti spesso non erano riconosciuti o seguiti, non essendoci un impianto di autorità. C’è stato un confronto di strategie per affrontare i problemi di rapporto fra i familiari legati alla malattia di uno di loro, avendo, sullo sfondo, il confronto fra diversi tipi di famiglie e i loro stili.
E’ capitato infine di riconoscere nella malattia una occasione di maturazione, di apprendimento: “sono i guai che maturano” è stato detto nel gruppo.
Occasione di “crescita e di approfondimento di rapporti, scoperta di aspetti sconosciuti del matrimonio, di sentirsi più libera anche dovendo rinunciare a tante cose”.
Occasione che ha permesso di sentirsi “persone, non macchine per soldi”.
E’ il guadagno conquistato, in modo inatteso, con la malattia.
Che significa libertà da un modello di consumi e di rappresentazione sociale di sé come persona di successo: è proprio un’altra cultura.
DR.SSA TERESA SERRA – Psicologa, Terapeuta della Famiglia
Centro di Psicoterapia e Arte applicata alla Psicologia
Studi relazionali alla terapia della famiglia – Parma
In che modo il malato può rassegnarsi alla malattia?
Nei nostri incontri di gruppo fra malati e familiari sono emersi diversi modi attraverso i quali le persone elaborano la malattia.
“Rassegnarsi alla malattia” forse vuol dire proprio questo: “dare un significato personale o anche universale, esistenziale a ciò che ci ha colpito. In questo caso la malattia”.
Tutti noi mettiamo inconsapevolmente in atto differenti strategie allo scopo di “darci una ragione” di quello che ci accade di spiacevole.
Il malato che dice “ho avuto una buona vita, ne sto pagando adesso il prezzo”, sta cercando di accettare a suo modo la malattia.
Un altro malato ha elaborato delle strategie di controllo della malattia compilando delle tabelle che illustrano l’andamento della funzione motoria durante la giornata e questo controllo riesce a dargli una maggiore padronanza nell’organizzare la vita quotidiana. E’ anche questo un altro modo per cercare di convivere meglio con la malattia.
Una persona potrebbe, ad esempio, partire da questa considerazione: “ho vissuto in occidente, sono maschio, sono bianco, tutto sommato non sono stato sfortunato anche se mi è successo questo”.
I modi per dare un significato a quello che si sta vivendo possono essere molteplici.
Per la verità, nessuno si rassegna alla malattia.
Anche il malato che dice: “ho avuto una buona vita”, potrebbe dire: “però, vorrei avere di più”.
Come ci si può rassegnare alla malattia, alla fine?
Ce ne possiamo fare una ragione ma, forse, non riusciamo mai, fino in fondo, a rassegnarci a quello che ci è accaduto di spiacevole. “Rassegnarsi” significherebbe perdere la speranza, gettare le armi. E’ estremamente utile, invece, cercare anche il nuovo farmaco, impegnarsi in nuove strategie riabilitative.
I gruppi di sostegno possono essere anche un modo per riuscire a superare la paura dell’evoluzione della malattia?
Ci sono stati dei familiari che inizialmente hanno partecipato ai gruppi di sostegno, poi si sono spaventati dicendo: “ci sono delle persone il cui familiare è ad uno stadio della malattia più avanzato del mio congiunto” e così non sono più intervenuti ai nostri incontri.
Si è verificato anche questo.
Dall’altro lato, però, partecipare al gruppo ha permesso sia ai malati, sia ai familiari di avere la possibilità di confrontare le diverse strategie che attuano giornalmente per affrontare meglio la loro situazione. Ha permesso loro di confrontare i differenti modi attraverso i quali vivono i problemi quotidiani. Essere in gruppo ha significato anche essere meno soli. Sentirsi soli è poi la cosa peggiore, che mette più in ansia.
Il gruppo ha in sé la capacità di far aumentare fra i partecipanti la forza emotiva, di dare a questi una nuova speranza.
Attraverso il confronto delle proprie cose, attraverso l’aiuto che si può dare agli altri ricevendo nello stesso tempo aiuto, si diventa più forti.
DR.SSA TERESA SERRA
Psicologa, Terapeuta della Famiglia
Centro di Psicoterapia e Arte applicata alla Psicologia- Parma
Quali sono le esigenze essenziali del malato parkinsoniano che vive giornalmente una situazione di costante bisogno? E quali sono le problematiche del familiare che quotidianamente affronta la difficoltà di assistere il proprio congiunto?
Da un interessante seminario organizzato dall’Associazione Svizzera del morbo di Parkinson, a cui hanno partecipato un gruppo di malati e di familiari, sono emersi in modo chiaro e spontaneo i desideri, le aspettative, i giusti comportamenti che sia i pazienti sia i familiari auspicherebbero che fossero realizzati oltre che osservati dal rispettivo partner nella vita di ogni giorno.
LE RICHIESTE DEI PAZIENTI
– sarebbe auspicabile, in alcune situazioni, una maggiore pazienza da parte del partner di fronte alla nostra lentezza, causata dalla malattia. Vorremmo che questo problema fosse tenuto nella dovuta considerazione;
– desidereremmo essere amorevolmente incentivati a svolgere qualche attività. Talvolta, però, “non far niente” e “nascondersi dietro la malattia” può anche essere piacevole;
– è estremamente importante che l’abitazione in cui viviamo presenti una struttura adeguata alle nostre difficoltà motorie. Non dovrebbero, quindi, essere privilegiati unicamente gli aspetti estetici;
– è nostro grande desiderio avere un più intenso colloquio con i familiari ed essere maggiormente coinvolti nei problemi e negli interessi della famiglia;
– comprendiamo l’impegno del nostro partner nell’assisterci e vorremmo anche noi dedicarci a lui (o a lei) in uno scambio di aiuto reciproco;
– un nostro prioritario obiettivo è mantenere il più a lungo possibile la nostra indipendenza. A volte, un aiuto non necessario rischia di renderci maggiormente disabili;
– vorremmo poter decidere da soli quando è necessario l’aiuto degli altri e quando non lo è. Anche se l’aiuto tempestivo può risultare alquanto utile in alcune occasioni, in altre può indurre all’autocommiserazione ed alla depressione;
– spesse volte non occorre alcun aiuto, abbiamo solamente la necessità di avere un po’ più di tempo per svolgere le nostre “attività”, quindi “avere tempo e dare tempo”;
– le persone che ci assistono dovrebbero essere maggiormente informate sulla malattia in modo da capire più intensamente i nostri problemi.
LE RICHIESTE DEI FAMILIARI
I familiari hanno indicato espressamente “ciò” che il paziente “dovrebbe fare” giornalmente:
– impegnarsi a collaborare spontaneamente e regolarmente nelle attività domestiche, sempre nei limiti delle sue possibilità, fornendo, in questo modo, un certo sollievo ai familiari. Si potrebbe, ad esempio, incaricare il paziente a svolgere piccole mansioni fisse;
– manifestare una maggiore fiducia nei confronti delle persone che lo assistono ed accettarne l’aiuto, abbandonando qualsiasi atteggiamento negativo;
– compiere maggiori sforzi per attenersi al programma giornaliero (rispettare, ad esempio, il mattino, l’ora stabilita per alzarsi dal letto, gli orari dei pasti, ecc.);
– passare meno tempo a guardare i programmi televisivi. Sarebbe una situazione ottimale per il paziente potersi occupare maggiormente dei propri interessi, dedicarsi a nuove attività.
LE ESIGENZE DEI FAMILIARI
– avere maggior tempo, nell’arco della giornata, per se stessi. Dedicare, infatti, un po’ di tempo alla propria persona è utile e necessario per recuperare le energie richieste da una assistenza costante verso il malato (ad esempio: uscire ogni giorno da soli; in estate lavorare in giardino, lontano dal partner; poter usufruire di qualche ora di libertà durante la giornata senza provare dei sensi di colpa; stabilire delle priorità personali; ecc.).
Dall’esame dei risultati del seminario appare chiaramente che i problemi psicologici sono assai frequenti sia nel paziente, sia nei familiari. Entrambi necessitano di maggiori informazioni sulla malattia nonché di un più specifico sostegno psicologico da parte di personale specializzato che sia in grado di aiutare il malato ed i familiari a fronteggiare in modo migliore e più adeguato le difficili situazioni create dalla malattia.
Disturbi fisici, disagi psicologici e sociali rappresentano le conseguenze più frequenti riscontrabili nel familiare impegnato, in modo continuo e costante, nella cura del proprio congiunto affetto dalla malattia di Parkinson.
Questi “non positivi” risultati sono emersi da un recente studio effettuato in Svizzera che ha coinvolto circa 180 familiari.
Dai dati dell’indagine appare immediatamente, fra gli intervistati, la prevalenza del sesso femminile (76%).
Ciò sta a significare che dedicarsi all’assistenza del proprio familiare ammalato costituisce, secondo i ruoli tradizionali, una attività prevalentemente e tipicamente femminile.
Numerose persone impegnate nell’assistenza di malati o infermi soffrono di problemi di salute.
In genere, si tratta di disturbi di tipo muscolo-scheletrico e anche di problemi psichiatrici (insonnia e depressione).
Un terzo degli intervistati ritiene che dedicarsi alla cura di un familiare (ad esempio, del proprio padre) possa avere anche ripercussioni negative nel rapporto con il rispettivo partner (“non hai mai tempo per me”, “non possiamo mai andare in vacanza”, “ti stanchi troppo” ecc.).
Più della metà di queste persone si sente disturbata nel riposo e nel sonno.
Il 72% dei familiari che assistono il proprio congiunto non sono in alcun modo remunerati per il loro lavoro.
Per il 25% degli intervistati la malattia del familiare ha peggiorato la loro situazione economica.
Assistere un familiare ammalato viene considerato “normale ed ovvio” da parte del 60% degli intervistati (“è mio dovere morale”).
Il 20% degli intervistati non dimentica la promessa matrimoniale (“il matrimonio ci ha unito nella buona e nella cattiva sorte”).
Prendersi cura di un familiare è ritenuta una attività sensata e saggia (70%).
L’assistenza al proprio congiunto significa anche “rispettare un valore umano” che viene “sentito e vissuto con amore” e ciò compensa il sacrificio e le privazioni che ne derivano.
L’espressione “facciamo qualcosa di importante” è stata confermata dal 90% degli intervistati. L’89% dei familiari vuole evitare che il proprio congiunto sia trasferito in una casa di cura.
“Parkinson”- Notiziario dell’Associazione Svizzera del morbo di Parkinson”- Hintereg
Numerosi studi hanno dimostrato che un malato di morbo di Parkinson seguito costantemente dalla famiglia è in grado di rispondere meglio al trattamento farmacologico proprio perché più disponibile alla somministrazione dei farmaci e più sereno ad accogliere eventuali variazioni del loro dosaggio.
E’ necessaria, quindi, una stretta collaborazione tra lo specialista e la famiglia del malato che insieme possono contribuire a migliorare la qualità della vita di chi è affetto da questa malattia, rendendolo anche più ottimista e più sereno verso il futuro.
Il morbo di Parkinson è una patologia che colpisce la funzione motoria.
E’ importante che il rapporto che si instaura fin dall’inizio della malattia tra lo specialista, la sua équipe, e il paziente insieme alla sua famiglia sia sereno e proficuo.
Da entrambe le parti è indispensabile operare affinché questo reciproco rapporto di comunicazione interattiva, specialista – paziente), sia mantenuto stabile, nel tempo.
Ciò riveste una notevolissima importanza per riuscire a gestire in modo ottimale e a lungo termine, una malattia cronica come il morbo di Parkinson.
Quando il morbo di Parkinson viene diagnosticato molti pazienti hanno già notato una modificazione del proprio tono muscolare ed una lieve alterazione di questo.
Inizialmente, il paziente si presenta dal neurologo con grande ansia ma può trascorrere molto tempo (uno o più anni), con continue visite specialistiche, prima che possa essere diagnosticata esattamente questa malattia.
Durante il periodo iniziale o di diagnosi incerta, il paziente può trovarsi a vivere momenti di grossi dubbi e di grandi paure, temendo anche che possa essere diagnosticata una forma tumorale o qualche altra gravissima malattia neurologica.
Molte volte, per alcuni pazienti, una diagnosi definitiva di morbo di Parkinson può rappresentare un sollievo sia perché, finalmente, ricevono delle spiegazioni e dei chiarimenti sui loro sintomi, sia perché ottengono utili indicazioni per vivere nel miglior modo possibile, nonostante la malattia di Parkinson.
LO SPECIALISTA DEVE PREPARARE IL PAZIENTE
Molti pazienti, quando inizialmente viene loro diagnosticato la malattia di Parkinson, si trovano nella condizione di non aver compreso di cosa si tratti e non sanno come affrontare la malattia.
Conseguentemente, a questi pazienti non dovrebbe mai essere soltanto detto: “Hai il morbo di Parkinson, questa è la prescrizione farmacologica, torna per una visita fra sei mesi”. Un tale comportamento potrebbe essere deleterio per molti malati i quali già vivendo con difficoltà la loro situazione e, poi, per di più, non sentendosi a proprio agio con lo specialista, lasciano, al termine della visita, lo studio del medico emotivamente molto provati.
Dalla nostra esperienza si ritiene che sia assolutamente indispensabile avere colloqui personali con lo specialista, soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla diagnosi della malattia di Parkinson. E’ necessario, infatti, per il malato, avere l’opportunità di fare domande e di ricevere delle risposte appropriate. Può, invece, essere oggetto di malessere e a volte anche causare sensazioni di paura, leggere articoli di carattere generale sul morbo di Parkinson, soprattutto nella fase iniziale. Occorre, quindi, al primo stadio della malattia, selezionare accuratamente il materiale scritto da proporre al paziente, nel contempo, inoltre, bisogna essere disponibili a dare risposte adeguate ai quesiti del malato e della sua famiglia.
Lo specialista e gli altri membri dell’équipe medica, devono tenere conto del substrato culturale del paziente e del suo desiderio di conoscere la malattia. Altresì, con le loro risposte, devono offrire informazioni corrette che includano le caratteristiche del trattamento prescritto, la prognosi, gli effetti positivi dei farmaci e di altre terapie, nonché gli eventuali effetti collaterali che potrebbero manifestarsi, diminuendo i risultati terapeutici. E’ utile spiegare il decorso della malattia e la cura appropriata in modo tale che il paziente possa diventare un interlocutore attivo ed intelligente e, per ottenere ciò, è opportuno utilizzare diagrammi, analogie, piuttosto che ricorrere ad un linguaggio scientifico comprensibile solo agli esperti.
Durante lo stabilirsi di questo rapporto di reciproca conoscenza fra medico e paziente, deve essere cura dello stesso paziente fornire allo specialista tutte le informazioni utili inerenti la sua persona: la professione che esercita o che ha esercitato, il tipo di studi che ha eseguito, la sua famiglia. Queste notizie rivestono notevole importanza per la maturazione futura di tale rapporto di conoscenza in quanto consentono allo specialista di rivolgersi al paziente stesso nella maniera più spontanea e più semplice possibile, tale da rendere la comunicazione con il malato comprensibile ed amichevole.
EDUCARE PER GESTIRE LA MALATTIA
Un paziente dovrebbe chiedere al medico chiarimenti, spiegazioni, indicazioni, direttive, assistenza.
E’ stato constatato che il paziente, culturalmente più attento e preparato, necessita maggiormente di indicazioni esplicite, di rassicurazioni e di appoggio, essendo più in imbarazzo a porre domande. Il malato dovrebbe essere informato sulla natura dei vari farmaci usati per trattare il morbo di Parkinson e cosa aspettarsi dopo ogni somministrazione. Dovrebbe essere messo al corrente degli effetti collaterali più comuni, di quelli potenziali ed egli dovrebbe, comunque, imparare a riconoscere il dosaggio adeguato alle sue esigenze. Lo scopo di educare il paziente, dandogli le opportune informazioni, consiste nel formare in lui la capacità di sviluppare strategie di “autocura” così che la sua vita possa svolgersi nel modo più normale possibile.
Ciascun paziente, così come ogni singolo membro della famiglia, ha differenti necessità mediche e psicosociali, derivanti dalla sua storia passata, dai problemi correnti e da precedenti esperienze. Già fin dai primi rapporti con lo specialista è importante che una persona con il morbo di Parkinson divenga un “partner attivo” nella cura, “non una vittima”.
LA FAMIGLIA: CAMBIANO I RUOLI
Compito del medico e di altri operatori sanitari è comprendere l’impatto che la malattia ha sull’individuo, anticipare i problemi del paziente e della sua famiglia, guidandoli a trovare una soluzione che sia utile ad affrontare la quotidianità lungo il decorso della malattia. Il paziente e la sua famiglia devono sviluppare e mantenere il più possibile “un senso di controllo”, senza lasciarsi andare perché sommersi dalle nuove difficoltà causate dalla malattia e ciò per vivere nel modo qualitativamente migliore la loro vita.
Questo si realizza imparando l’importanza di acquisire una sempre maggior conoscenza relativa al morbo di Parkinson ed al suo trattamento. I ruoli nella famiglia e le responsabilità al suo interno vengono spesso modificati quando un proprio membro che si è sempre occupato degli altri famigliari, necessita, ora, delle loro cure e della loro assistenza. In questo modo il ruolo del genitore e del figlio possono invertirsi. Il paziente con il morbo di Parkinson, percepito come disabile all’interno della famiglia, assume, appunto, il ruolo del figlio. Questa inversione di ruolo genitore/malato/figlio può divenire causa di “stress” per tutti i membri della famiglia. Occorre, quindi, una ridefinizione corretta delle responsabilità in seno al nucleo famigliare.
Un metodo di condotta per superare il disagio derivante dal cambiamento di ruolo è quello di considerare la nuova realtà che si presenta da parte di coloro che si trovano coinvolti in tale situazione. La presa di coscienza dei problemi pratici che necessitano di affrontare, muove i componenti della famiglia ad agire nel modo opportuno, senza riguardo al ruolo che rivestono nel suo ambito. L’esperienza ha dimostrato che molte famiglie accettano spontaneamente questa nuova ridefinizione dei ruoli e spesso, infatti, non sono neppure consapevoli che tali cambiamenti possono produrre “stress” nell’ambito famigliare.
CONTROLLARE LA MALATTIA
E’ importante per il paziente, all’inizio del trattamento, accettare l’assistenza, la comprensione e la cooperazione sia degli altri membri della famiglia, sia del gruppo sociale.
Il paziente ed il suo morbo di Parkinson devono essere valutati nel contesto della famiglia, considerando tre elementi fondamentali: il substrato culturale, la professione, la personalità. Ciò include, per lo specialista che si avvicina al malato, la necessità di comprendere l’auto-immagine che il paziente ha di se stesso, l’intensità e la forza di relazione esistente all’interno della famiglia. La complessità del morbo di Parkinson ed il suo controllo presentano numerose difficoltà. Per alcuni pazienti è estremamente difficile adattarsi ai cambiamenti che si verificano nella quotidianità della loro vita, portati dalla malattia. Quando un paziente non è in grado di accettare la situazione che si trova a vivere, spesso dà la responsabilità delle sue difficoltà ai componenti della famiglia e agli operatori sanitari. Nel lungo termine, ottiene migliori risultati nella gestione della malattia chi acquisisce tecniche per superare le difficoltà di movimento, chi apprende nuove informazioni ed impara ad applicarle ai problemi che incontra con il morbo di Parkinson. Altresì, è di grandissimo aiuto avere “un attivo rapporto di partecipazione” con il sistema di cura prescritto, oltre che una buona comunicazione con il proprio medico. In altre parole, è il miglior controllo della propria situazione che contribuisce a rendere più efficaci i risultati del programma terapeutico. Quando le cose non vanno bene nel controllo della malattia del morbo di Parkinson si determinano frustrazioni, disappunto, disperazione e spesso amarezza.
Dovrebbe essere fatto un elenco delle attività specifiche per le quali il paziente ha difficoltà di esecuzione, delle attività che limitano la sua capacità di compiere un lavoro e di quelle che affaticano il suo fisico. Un specifica difficoltà può divenire l’obiettivo della terapia ed essere usata come parametro per misurare l’efficacia della stessa. D’altra parte, un paziente non sa cosa aspettarsi da un particolare dosaggio di farmaco. Pensa che la somministrazione farmacologica serva ad eliminare la malattia e non si rende conto, invece, che l’effetto del farmaco non è costante nell’arco della giornata e, peraltro, da ciascuna dose si possono avere risultati diversi. Può, perciò, provare delusione nell’accorgersi che il dosaggio assunto non dà gli effetti da lui attesi. Dopo dosi di farmaco si possono riscontrare miglioramenti per aree di funzioni: disturbi del controllo motorio, cammino, postura, oscillazioni delle braccia, vestirsi, espressione del viso, volume della voce, capacità di intervenire nella conversazione.
APPLICARE CORRETTAMENTE LE ISTRUZIONI MEDICHE
Medico, paziente, famiglia, raggiunto un accordo sulla priorità di alcuni obiettivi da stabilirsi, condividono i risultati attesi di ogni specifica dose di farmaco e suggerimento terapeutico. La mancanza di un accordo provocherà incomprensione e delusione sull’esito, in quanto verrà disattesa la realizzazione di una cura globale. Entrambe le parti (medico/paziente) devono fare in modo che le istruzioni impartite durante la visita siano comprese, ascoltate, seguite in modo da ottenere una appropriata applicazione nella gestione a lungo termine del morbo di Parkinson.
RILEVAZIONI NEGLI STATI UNITI
Da uno studio statistico negli Stati Uniti è stato rilevato che il mancato rispetto delle prescrizioni mediche da parte dei malati sia una delle situazioni più serie e pertanto, un problema molto costoso, in America, per la sanità. Viene stimato che una elevata percentuale delle prescrizioni mediche (30% – 50%) non vengono seguite correttamente dai pazienti. Molte prescrizioni non sono, perfino, effettuate.
INCONVENIENTI DI UNA ERRATA COMUNICAZIONE
Quando accade di prescrivere cambiamenti da seguire nella condotta di vita, metà dei pazienti o trascurano di rispettarli o li rispettano in modo non corretto. Il paziente abitualmente incolpa di ciò il medico che può, per questo, anche essere rimproverato.
Molti possono essere i motivi che determinano questo errato comportamento del paziente, da ricondurre, nella maggior parte dei casi, alla mancanza di una corretta comunicazione fra medico e paziente. Il medico spesso affronta la malattia con cautela, lasciando il paziente con la sensazione che non si sia fatto tutto il possibile. Un paziente, può, inoltre, interpretare in modo errato, il consiglio del medico o dimenticare ciò che questo gli ha detto pochi minuti dopo che ha lasciato il suo studio. Il medico, può, invece, esagerare i benefici della terapia. Il paziente può interrompere la terapia stessa quando si accorge che non si realizzano i rapidi miglioramenti sperati, oppure il medico può minimizzare o tralasciare di comunicare al paziente i possibili effetti secondari, inducendo il paziente a sospendere la terapia qualora tali effetti si verifichino. In entrambi i casi si attuano delle interruzioni nella terapia, non dando la possibilità alla stessa di manifestare completamente il proprio effetto.
UTILIZZO DI NUOVI STRUMENTI (PERCHE’ NON SERVIRSENE?)
Per ovviare ad incomprensioni sulla modalità di seguire la terapia e stato riscontrata l’utilità di servirsi sia di un “registratore”, sia di una “videocassetta” che riporti l’incontro fra lo specialista, il paziente e i famigliari.
Nella pratica, si raccomanda al paziente di usare un registratore, prima scrivendo quello che lo specialista dice e poi ripetendo le istruzioni ad alta voce allo specialista, per essere certi che sia stato capito, nella maniera esatta, il trattamento da seguire. E’ utile, anche, registrare gli specifici argomenti trattati durante la visita. Quando sussiste un problema di notevole rilevanza e complessità, è importante organizzare un incontro fra lo specialista, il malato e i suoi famigliari. In tal caso, si è constatato l’utilità di registrare con una videocassetta tali incontri per dare, poi, la possibilità sia al paziente, sia ai famigliari, di riesaminare il filmato e risentire ciò che si è detto e ciò che si deve fare nel modo corretto. La tecnica della videocassetta si è dimostrata di grande utilità per risolvere problemi famigliari che turbavano e creavano disagi, causati dalla malattia oppure, anche, da altri eventi. Dal filmato, il paziente può vedere la sua immagine, constatando che la terapia seguita può determinare uno stato “normale” alle sue condizioni così che i momenti di blocco possono essere superati.
La registrazione in videocassetta può, inoltre, aiutare ad imparare a comunicare.
Nella comunicazione interattiva “A” manda un messaggio a “B”, che lo riceve. “B” risponde al messaggio di “A” che comprende la risposta. Per capire il messaggio è necessario che le parole usate da ambedue le parti siano semplici e chiare e che sussista una reciproca volontà per risolvere i problemi.
E’ INDISPENSABILE CAPIRSI
Nello sforzo di risolvere i problemi nel trattamento del morbo di Parkinson, i pazienti, i loro famigliari, gli specialisti devono capirsi reciprocamente. Presentando i problemi con chiarezza allo specialista e ricevendo chiare e sicure risposte da quest’ultimo, si possono ottenere per la cura del morbo di Parkinson risultati soddisfacenti, nel lungo periodo. Agendo altrimenti, si perde l’opportunità di utilizzare il potenziale bagaglio di conoscenze ed esperienze disponibili.
Pazienti e medici possono e dovrebbero imparare reciprocamente.
“THE AMERICAN PARKINSON DISEASE ASSOCIATION” – APDA –
“TWO WAY COMMUNICATION: THE PATIENT-DOCTOR RELATIONSHIP IN PARKINSON’S DISEASE” ROBERT G. FELDMAN
E’ molto importante che si instauri un rapporto di collaborazione fra lo specialista ed il medico di base. Dalla mia esperienza di familiare di un malato ho, però, potuto constatare che il medico di base “fa un po’ fatica” ad entrare nel rapporto specialista – paziente.
Domenico, familiare
E’ vero che la terapia antiparkinson deve essere seguita con criteri specialistici (prescrivere la somministrazione della levodopa nella giusta dose e al momento giusto) ma è pur vero che la collaborazione fra medico di famiglia – neurologo – paziente è estremamente importante. Il medico di base ha un rapporto più confidenziale e più continuo con il malato che magari assiste da anni e ne conosce complessivamente tutti i problemi. Un rapporto più vicino, più stretto con il neurologo permette al medico di base di segnalare qualsiasi nuova problematica del malato allo stesso specialista (“Guarda che si è venuta a creare questa situazione”) consentendo un intervento sanitario più tempestivo che, generalmente, porta a risultati più soddisfacenti.
Presso il Centro neurologico della malattia di Parkinson e delle altre malattie extrapiramidali di Fidenza, dove svolgo la mia attività, abbiamo creato un filo diretto con il medico di famiglia lasciando spazio per una o due visite urgenti alla settimana. Il medico di famiglia può, quindi, inviare al nostro ambulatorio i casi che ritiene più urgenti.
E’ molto importante durante la visita medica parlare con chiarezza dei propri disturbi.
Spesso, però, mentre si è seduti di fronte al medico, non si ricorda sempre tutto.
E’ allora consigliabile annotare su un taccuino ciò che si vuole dire al medico.
In questo modo si è sicuri di non dimenticare proprio di nulla.
Come si deve organizzare il discorso?
E’ bene, prima di tutto, stabilire lo scopo della visita.
In questo modo è più facile poter chiarire quegli aspetti della malattia di cui si è maggiormente preoccupati.
Per quanto riguarda la terapia farmacologica, come parlarne?
Occorre pensare alla terapia che si sta seguendo.
Ad esempio, è bene informare il medico se, rispetto all’ultima visita specialistica, si sono modificati i tempi di assunzione dei farmaci antiparkinson, se accade di dimenticare di assumere una dose di farmaco, se sono stati aggiunti alla terapia altri farmaci come i farmaci da banco oppure le vitamine.
E’ anche importante informare il medico di essersi sottoposti ad altre visite specialistiche a causa, ad esempio, di un’emergenza oppure per la diagnosi di un’altra malattia.
Se il paziente non sta bene e per questo motivo ha chiesto la visita medica, il suo discorso deve essere arricchito da ulteriori elementi:
– se si sono verificati cambiamenti nella sua dieta, nelle abitudini del sonno, nella routine giornaliera…
– quando è il momento in cui inizia a sentirsi male oppure quando peggiorano i sintomi parkinsoniani e come si sente;
– in caso di dolore, che tipo di dolore prova e dove. E’ bene, comunque, descrivere qualsiasi altro sintomo: nausea, vomito, giramenti di testa…
Se la visita medica è legata alla malattia di Parkinson, è necessario che il paziente metta in evidenza qualsiasi variazione del suo stato di salute (una intensificazione dei sintomi, nuovi sintomi, cambiamenti dei sintomi) e quando si verifica (dopo avere preso i medicinali, dopo mangiato…).
Una raccomandazione: è importante preparare la lista completa dei farmaci che si assumono (farmaci antiparkinson, farmaci da banco, prodotti di erboristeria, vitamine ed integratori nutrizionali), in questo modo il medico ha la visione completa dei farmaci utilizzati.
Il paziente che si prepara in anticipo a questo appuntamento è in grado di comunicare meglio con il medico: aiutando il medico, il paziente aiuta se stesso.
“THE AMERICAN PARKINSON DISEASE ASSOCIATION” – APDA –